Avvertenze preliminari (prima parte)

Per evitare errori di partenza, domandarsi sempre quando, con chi, come e con quale approccio si intende avviare un processo partecipativo.
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Ci piace qui iniziare con una citazione assai provocatoria di uno dei padri fondatori della progettazione urbanistica partecipata in Italia, Giancarlo De Carlo, scomparso una diecina di anni fa, e che costituisce forse il suo testamento spirituale:

“Non serve una teoria della partecipazione mentre occorre l’energia creativa necessaria […] a confrontarsi con gli interlocutori reali che si vorrebbero indurre a partecipare […]. Ogni vera storia di partecipazione è un processo di grande impegno e fatica, sempre diverso e il più delle volte lungo ed eventualmente senza fine. La partecipazione impone di superare diffidenze reciproche, riconoscere conflitti e posizioni antagoniste.”
“È difficile che il dialogo si apra subito a una fluente ed efficace comunicazione. Ma quando si raggiungono fiducia e confidenza, allora il processo diventa vigoroso, spinge all’invenzione, innesca uno scambio di idee che viene continuamente alimentato dall’interazione dei modi diversi di percepire le questioni portate nel dibattito dai vari interlocutori. A questo punto l’ambiente si scalda e “accade” la partecipazione, che è un evento non solo intellettuale o mentale, ma anche fisico, alimentato da calore umano. Man mano che lo scambio si intensifica – e si assottiglia, si acuisce, si stratifica – l’interazione diventa sempre più stimolante e i suoi esiti non sono più prevedibili […]. Per questo non esistono ricette per la partecipazione”
(De Carlo 2002, pp. 244-45).

Certamente De Carlo, specie nel suo grande intervento di architetto “partecipativo” per la costruzione del villaggio operaio “Matteotti” a Terni tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, non teorizzava l’inutilità di ogni strumento metodologico rigoroso, e aveva un concetto assai alto dell’autorevolezza e specificità del ruolo del progettista. Ma la citazione poc’anzi riportata ci dice che ogni metodologia, ogni tecnica “partecipativa” non deve perdere di vista il nucleo centrale di un autentico processo partecipativo, che è la costruzione di nuove relazioni sociali, di nuova fiducia tra i cittadini e tra questi e le istituzioni, di un senso di protagonismo (empowerment lo chiamano i maniaci dell’inglese), di calore umano, di apertura al nuovo, fino al “lasciarsi sorprendere” da soluzioni inedite e inattese.

Proprio per questo, aggiungiamo noi ritornando alle nostre “avvertenze”, è necessario saper evitare errori “di partenza” che potrebbero compromettere il buon andamento del processo: come atteggiamenti difensivi dei promotori della partecipazione o di “sfiducia preventiva”, come per esempio quando si tende a limitare l’apporto dei cittadini nei “tempi” e nella “quantità” del loro coinvolgimento.

Quando? il prima possibile
Sul “quando” un ente o gruppo promotore della partecipazione deve cercare di coinvolgere i cittadini e le aggregazioni della società civile, c’è in letteratura una pressoché totale unanimità sul principio del “prima possibile” o “fin dall’inizio”.
Testimonianza concrete e riflessioni teoriche concordano nel dire che la soluzione “comoda”, specie per le amministrazioni locali, di coinvolgere i cittadini nelle fasi finali del processo in realtà è assai poco conveniente: perché alla stessa amministrazione, oltre che ai cittadini, vengono di fatto sottratte opzioni alternative a un progetto ormai in fase avanzata di definizione, il tempo guadagnato nel redigere il progetto con la strumentazione tecnico-urbanistica tradizionale verrà perso in seguito nel dover affrontare conflitti e opposizioni, i cittadini vedono confermato il loro atavico pessimismo consistente nel dire che le amministrazioni li consultano “a cose già fatte”, in un’ottica di “finta partecipazione”.
Ed hanno ragione evidentemente, se si prova, a un livello più teorico, a incrociare le tre fasi fondamentali di un processo partecipativo (indagine preliminare, interazione progettuale con gli abitanti, implementazione del progetto) con i livelli della partecipazione di cui abbiamo discorso in articoli precedenti: è evidente infatti che, più tardi avviene il coinvolgimento dei cittadini (ad esempio a progetto pressoché ultimato), più “basso” sarà il livello della partecipazione: ad esempio quello della pura informazione o al massimo della consultazione.

Se un decisore pubblico vuole sul serio “far partecipare” i cittadini dovrà coinvolgerli subito, sin dalla fase della definizione del problema, in modo che i cittadini stessi possano, ad esempio nella fase di costruzione del progetto, accedere ai livelli superiori della “scala della partecipazione” (partnership, co-progettazione, co-implementazione).
Nel manuale A più voci già citato (a cura di Luigi Bobbio) viene fatto l’esempio di una riunione indetta dal Comune di Roma per affrontare i problemi di viabilità del quartiere Esquilino, dove tra l’altro c’era una fermata di autobus collocata in una situazione pericolosa. Si alza un signore che illustra la soluzione da lui elaborata per quel problema. L’assessore alla Mobilità dichiara il suo stupore, perché gli uffici comunali erano arrivati alla stessa conclusione, ma dopo 8 mesi di studio!

Quali e quanti cittadini coinvolgere?
Non basta tuttavia voler coinvolgere fin da subito i cittadini: ma quali cittadini coinvolgere? quali aggregazioni della società? quanti?
Una “democrazia partecipativa” rappresenta una sfida epocale di lungo periodo. Le pratiche che la sostanziano esistono al massimo da qualche decennio. Se prendiamo la città famosa per aver inventato il “Bilancio partecipativo”, Porto Alegre, scopriamo che nel momento culminante di quell’esperienza i cittadini che hanno partecipato sono stati 40.000 (Wainwright 2003, p.77), in una città grande come Milano: dunque, circa il 3% della popolazione!
Questa dimensione radicalmente minoritaria del fenomeno della “cittadinanza attiva” non solo dice molto sul carattere di lungo periodo di una sfida ad alcuni paradigmi fondativi della democrazia così come l’abbiamo finora conosciuta, ma serve anche a spiegare la necessità – chissà per quanto tempo ancora – della compresenza delle istituzioni rappresentative nei percorsi decisionali “partecipati”.
Le istituzioni, infatti, con tutti i loro difetti, rappresentano la totalità dei cittadini, e proprio per questo hanno in mano le leve fondamentali dell’implementazione dei progetti.

Il tema del “con chi” fare partecipazione è dunque più complesso di quanto non si possa credere. Ad esempio, vedremo come, nella primissima fase iniziale di un percorso partecipativo, possa essere utile limitare il coinvolgimento ad alcuni cittadini più in vista (i cosiddetti stakeholder) per raccogliere i primi dati e riflessioni sul problema in discussione. Oppure, ci possono essere dei percorsi partecipativi che coinvolgono solo istanze istituzionali (come ad esempio le conferenze di servizi), che servono certamente a migliorare delle prestazioni pubbliche, ma non coinvolgono direttamente i cittadini.

In nome di chi?
Ma la questione del “con chi” solleva soprattutto un grande problema ad essa collegato: il problema che chiameremo “in nome di chi”. In altri termini, i cittadini e le associazioni che “partecipano”, proprio perché sono sempre una minoranza, che ruolo di rappresentanza hanno, verso le istituzioni, rispetto alla massa dei cittadini “non partecipanti”? Anche su questo punto la letteratura specializzata è intervenuta ampiamente, toccando temi cruciali quali “coinvolgimento delle associazioni/dei cittadini singoli”, come garantire i principi dell’inclusione sociale attraverso la tutela degli abitanti delle fasce deboli e non attive, o addirittura degli interessi di soggetti non rappresentabili, come ad esempio le generazioni future. Qui ci limiteremo ad accennare al problema della rappresentanza.

Singoli cittadini o associazioni?
Si potrebbe quasi sostenere, paradossalmente, che la rappresentanza è “più piena” quando a partecipare è il cittadino singolo piuttosto che un’associazione: il cittadino singolo infatti rappresenta solo se stesso, e in questo senso la sua rappresentanza è “piena”; l’associazione, invece, intende agire una rappresentanza “collettiva”, che vuol fuoriuscire dai confini dell’associazione stessa; ma il suo “contorno” è necessariamente non ben definito, e soprattutto l’idea di “partecipazione” presente in molte associazioni (che nella loro vita interna non sono sempre molto democratiche) consiste nell’erigere se stesse a prime protagoniste della partecipazione, contravvenendo alla regola della “porta aperta” essenziale a ogni autentico processo partecipativo (Vitale 2007). E se da un lato abbiamo diversi studiosi che sottolineano i pericoli della partecipazione “associativa” (per tutti rinviamo ad Umberto Allegretti 2009) – prevalenza di gruppi organizzati più forti e aggressivi, logica “lobbystica” di pressione sulle istituzioni, esclusione o emarginazione di associazioni o gruppi sociali deboli o mal rappresentati -, dall’altro lato possiamo dire che queste critiche trovano linfa anche in un atteggiamento diffuso nelle istituzioni, che nel voler “fare delle esperienze partecipative” trovano spesso più comodo e “naturale” rivolgersi alle forme organizzate della società civile piuttosto che ai cittadini comuni.

Imparare a “fare rete”
E tuttavia non sarebbe giusto né possibile escludere il mondo dell’associazionismo dai soggetti da coinvolgere. Si tratta di un mondo che in Italia non solo è ricchissimo, ma che è depositario di esperienze e conoscenze insostituibili per chiunque voglia praticare la democrazia partecipativa. Nel manuale curato da Bobbio è infatti presente un’intuizione fondamentale: più soggetti si coinvolgono, più si riducono i rischi e i pericoli contenuti nell’autoreferenzialità delle associazioni (“Potremo dire di aver fatto un buon lavoro, se non ci sarà nessuno che potrà lamentarsi di essere stato escluso”). E più numerose saranno le presenze – di cittadini comuni e di associazioni – ai tavoli della partecipazione, più sarà “obbligatorio” l’apprendimento dall’ascolto degli altri, la relativizzazione “riflessiva” delle proprie identità, l’imparare a costruire rete, la pari dignità dell’opinione del “leader” e della “casalinga di Voghera”. Fare tutto ciò è difficile? Certo, ma ciò rientra nella croce – e delizia – di un buon regista della partecipazione.


Per saperne di più
Allegretti U.,  Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, Relazione generale al convegno: La democrazia partecipativa in Italia e in Europa: esperienze e prospettive, Firenze, 2-3 aprile 2009;
De Carlo G:, “La progettazione partecipata”, in Sclavi M. et al., Avventure urbane. Progettare la città con gli abitanti, elèuthera, Milano 2002, pp. 243-46;
Vitale T., “Le tensioni tra partecipazione e rappresentanza e i dilemmi dell’azione collettiva nelle mobilitazioni locali”, in T. Vitale (a cura di), In nome di chi? Partecipazione e rappresentanza nelle mobilitazioni locali, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 9-40;
Wainwright H., Sulla strada della partecipazione. Dal Brasile alla Gran Bretagna, viaggio nelle esperienze di nuova democrazia, Ediesse, Roma 2005.




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