I livelli della partecipazione (seconda parte: "la concessione")

Riprendiamo il discorso sulla “Scala della partecipazione” di S. R. Arnstein. Dopo i primi livelli della “finta partecipazione” (trattati in un precedente articolo) parliamo ora del secondo livello, che potremmo chiamare della “Concessione”.
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gradi partecipazione
La “concessione” di momenti partecipativi non “concede”, però, alcun effettivo potere decisionale ai parte dei cittadini. Arnstein distingue questo livello in altri tre “gradini” o “pioli” della sua scala:

1. L’informazione
La pubblica amministrazione si rende conto in qualche modo che deve “coinvolgere” i cittadini, ad es. in un qualche progetto di risanamento urbano, rendendoli edotti dei progetti in via di definizione anche prima della loro pratica attuazione. Questa è la differenza tra l’informazione “unidirezionale” della partecipazione puramente “manipolatoria” (dove gli abitanti vengono informati di quanto è già stato deciso in modo irrevocabile), e l’informazione come “concessione” che viene fatta loro in corso d’opera (ma, più spesso, quando la progettazione è già in stato avanzato): in sostanza, si usano i mass media, dei pamphlet, dei poster, delle “mostre” sui progetti, e tutt’al più si pubblicano le risposte a singoli dubbi sollevati da qualche cittadino. Manca in sostanza ogni informazione sulle possibili opzioni alternative riguardanti il progetto, e quindi ogni possibilità di intervento autonomo “dal basso”. Non c’è da meravigliarsi se la risposta dei cittadini si attesti a un livello di scetticismo e di sfiduci, che spesso si ripercuote anche nelle prime fasi di un “vero” percorso partecipativo: “voi dite che volete farci partecipare, ma in realtà avete già tutto deciso!”
Tutto ciò non deve portare a considerare l’informazione come di per sé negativa. Anzi, è un momento che deve restare essenziale in tutti i “livelli” più alti di un processo partecipativo; a condizione, però, che abbia non solo un carattere “bidirezionale” (tra cittadini e istituzioni in entrambi in sensi), ma che non venga scambiata per “partecipazione” a pieno titolo, ma piuttosto sia considerata come attività strumentale indispensabile a tutte le fasi di un’autentica progettazione partecipata.

2. La consultazione
La pubblica amministrazione si rende conto che deve “dare la parola” ai cittadini, ma resta pur sempre molto chiaro che i momenti di discussione sono nettamente distinti da quelli decisionali, totale appannaggio dell’istituzione. Arnstein usa espressioni molto sarcastiche per definire questa politica: “allestimento della vetrina”, rituale-specchio per le allodole. Il fatto è che negli esempi che egli porta, ad esempio riguardanti il risanamento di ghetti per neri negli Stati Uniti negli anni Sessanta, era evidente che i diversi programmi federali e locali non immaginavano neppure di coinvolgere gli abitanti nella definizione delle proposte, né di dover sottoporre loro seriamente diverse opzioni, e ciò attraverso una palese insufficienza nelle informazioni, riguardanti i diritti dei cittadini, gli aspetti tecnici, l’esistenza di possibili problemi prioritari rispetto a quelli posti in discussione.
Nella cultura politica italiana dobbiamo assimilare a questo “gradino” della partecipazione i sondaggi sulle preferenze degli abitanti, e anche alcune ricerche “quantitative” sulle loro percezioni relative a un certo problema (ma anche queste tecniche potrebbero avere valenza positiva se presentate come una fase preliminare di un percorso partecipativo più ampio). Soprattutto, occorre sottolineare che in Italia, contrariamente ad altri paesi in cui negli ultimi decenni sono stati fatti molti passi avanti, e nonostante diverse eccezioni lodevoli che fortunatamente sono in aumento, il livello della consultazione è quello a cui si sono attestate la stragrande maggioranza delle amministrazioni locali: sia perché amministrazioni più “democratiche” l’hanno praticata “da sempre”, sia perché, appunto, è carente una cultura della partecipazione come “co-protagonismo” e effettiva possibilità di negoziazione. Dal lato dei cittadini, va detto che essi hanno a volte la giusta sensazione di contare qualcosa, almeno a livello delle proposte, ma il rischio è duplice: di fronte a sondaggi e questionari, il cittadino non può certo esprimere a pieno la sua soggettività e i suoi vissuti, così che egli si sente “percepito come un’astrazione statistica”; e nel caso di assemblee e dibattiti, c’è la forte probabilità che essi siano monopolizzati dai “soliti noti”, i cittadini deboli o “inesperti” siano tagliati fuori, e nel dibattito emerga l’opinione di una “casta” della società civile, spesso formata da attivisti di partito o di associazioni “più in vista”.

3. La cooptazione
Traduco in questo modo la placation di Arnstein, parola che va tuttavia citata per la sua valenza “ironica”: “come cercare di placare i cittadini”. Tutti gli esempi fatti riguardano infatti diverse modalità di coinvolgimento di cittadini “facendo entrare” qualche loro “rappresentante” in un organismo, comitato, agenzia che si occupa di progettazione urbana (e non solo). Per allinearci allo stile caustico del nostro autore potremmo ricordare l’orgoglio con cui vent’anni fa, quando l’immigrazione in Italia non era ancora un fenomeno di massa, qualche sindacalista sbandierava il “funzionario di colore” della propria Federazione. Certo, non si può negare che in questo modo una piccola parte di cittadini appartenenti a qualche gruppo escluso venga coinvolta direttamente nei processi decisionali. Ma i problemi sono ben maggiori: quei cittadini sono sempre in minoranza in quel dato comitato di pianificazione, spesso non hanno accesso a tutte le informazioni e spessissimo la loro opinione viene “schiacciata” dagli altri membri con competenze tecniche. Ma il problema più significativo è la loro carenza di rappresentanza rispetto al gruppo sociale da cui vengono “estratti” (tanto che molti appartenenti a quel gruppo spesso li accusa più o meno di “essersi venduti”).
Il vissuto di questi “cittadini attivi” cooptati spesso è contraddittorio: sono diventati membri di un apparato decisionale istituzionale, e nello stesso tempo dovrebbero “rappresentare” esigenze di una base sociale verso la quale non è chiaro il loro ruolo di rappresentanza.
Non fa meraviglia dunque che tra gli “altri” cittadini si diffonda o un pessimismo sulle diverse forme di partecipazione “intermedie” che abbiamo visto, oppure prevalgano ancora le tentazioni e le vecchie culture “rivendicative”, oppure, ancora, venga profilandoli un atteggiamento che possiamo chiamare lobbystico: di fronte a un disinteresse sostanziale delle istituzioni verso un vero coinvolgimento dei “cittadini comuni”, alcuni di costoro se ne autoproclamano rappresentanti, con lo scopo di “far pressione” per risolvere questo o quel problema. Dinamica presente, mi pare, in alcuni esponenti dei “Comitati per Milano” i quali, in mancanza di “cooptazione”, si auto-cooptano con una presenza assidua, volenterosa ma spesso inutile, a tante riunioni (comprese quelle dei Consigli di zona), contribuendo così a uno stallo della cultura della partecipazione.



di Sergio De La Pierre, del “Laboratorio di democrazia partecipata. Per un nuovo spazio pubblico”


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Re: I diversi livelli della partecipazione (seconda parte)
16/02/2013 liana
non posso che ringraziare chi fa questo bollettino e riporta articoli come questo che considero molto importanti. Avessimo qualcosa di simile in zona 2.
Sarò ingenua ma io avevo pensato che il consiglio di zona potesse servire da tramite per una partecipazione del "popolo". E invece loro se ne stanno nei loro pseudo parlamentini a fare discorsi tra di loro. Molto dleudente.
lilianas


 
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