Principi e tecniche del gruppo di lavoro (I parte)


Proponiamo la prima parte di un corposo contributo ricevuto da Sergio De La Pierre e che verrà pubblicato a più riprese. Con questo lavoro, l'autore intende offrire spunti teorico-pratici circa la creazione e gestione di un gruppo di lavoro, impegnato nella progettazione partecipata in ambito territoriale. Questa settimana, ci avvicineremo alla concezione stessa di "gruppo", dove si indaga la "dimensione plurale" dell'individuo inserito in un insieme non casuale di più persone che condividono principi e bisogni.

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Cenni storici
Durante la seconda guerra mondiale lo psichiatra e psicanalista inglese Wilfred R. Bion (v. Riferimenti bibliografici) si trovò a dirigere un reparto di riabilitazione in un ospedale psichiatrico militare. 

Quello che va sotto il nome dell’”esperimento di Northfield” non è altro che il primo caso in assoluto di “comunità terapeutica”, in cui alla terapia individuale veniva affiancata una terapia di gruppo. 


Non possiamo addentrarci ovviamente negli aspetti clinici (una sorta di “patologia di gruppo” viene analizzata da Bion, dando una particolare "piegatura" a precedenti teorie risalenti a Freud), ma qui ci interessa questa “esperienza sul campo” in quanto fa giustizia di una concezione allora ancora prevalente sulla diversa funzione delle scienze umane.
Le scienze sociali - e la sociologia in particolare - nascono nell’Ottocento con una visione “organicistica” della società, intesa come “oggetto” sostanzialmente diverso dagli individui che la compongono; la psicologia è invece deputata a trattare le problematiche dell’”individuo”.


Vi erano state eccezioni importanti (come la teoria dell’ ”azione sociale” di Weber in sociologia e la psicanalisi junghiana), ma la pratica scientifica (e clinica) era ancora “divisa” tra una sociologia che si occupava di “grandi aggregati” e una psicologia orientata a problematiche più “personali”.


Dimensione individuale e dimensione sociale
Per l’ingresso nelle scienze sociali di una teoria sui “gruppi” (dovremo aspettare gli anni Settanta), la pratica di Bion sarà importante per due lasciti di grande rilevanza teorica:

1)  esiste un rapporto intrinseco tra dimensione individuale e dimensione sociale.
"L’individuo è ed è sempre stato membro di un gruppo, anche quando questo suo far parte di un gruppo consiste nel comportarsi in modo tale da far realmente credere di non appartenere a nessun gruppo” (Bion 2004, p. 178).
Come forse insegnano anche esperienze terribili del Novecento, vedere l’uomo solo come essere individuale o solo come essere sociale può esser fonte di distorsioni teoriche, tragedie storiche e patologie psichiche.

“L’essere umano - scrive Di Nubila 2000, p. 57 - è la risultante della interazione individuo-gruppo, pur rimanendo chiaro che, sia l’uno che l’altro, hanno caratteristiche proprie… Come due pagine di un foglio che sono distinguibili, ma non separabili”;


2) la presenza, quindi, di una dimensione razionale e di una irrazionale/inconscia non solo nella vita individuale ma anche in quella dei gruppi (qui non possiamo soffermarci sulle diverse declinazioni della dimensione inconscia collettiva offerte ad es. da Jung, Bion e Rogers).

Mi piace, a questo punto, fare un cenno all’art. 2 della Costituzione italiana che, parlando di garantire i diritti inviolabili dell’uomo, aggiunge “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”: è qui accennato qualcosa che va oltre la tradizione dell’individualismo liberale e del “collettivismo” di origine marxista….

In conclusione, il gruppo che è significativo per la vita di ciascuno non è una semplice somma di individui, ma non ha neppure vita separata da essi, in quanto la dimensione relazionale e sociale è iscritta nella stessa vita psichica individuale.

Tutto ciò sarà presente, nell’immediato dopoguerra, nel pensiero e nell’azione dello psicologo sociale Kurt Lewin (a cui qui solo accenniamo), inventore della teoria dei gruppi come “campi di forze”, secondo cui “un membro di un gruppo esiste nella psicologia degli altri membri non come singolo, ma come ‘gruppo’, cioè come appartenente alla nuova dimensione plurale del gruppo”.

Che cos’è dunque un gruppo?
Riportiamo al proposito due definizioni.
La prima è dello psicologo sociale P. Amerio, che mi sembra utile in quanto riecheggia quanto sopra accennato sull’art. 2 della Costituzione: “Il gruppo è il perno tra l’individuo anonimo e il sociale organizzato”.

La seconda è di Renato D. Di Nubila, esperto formatore sulla gestione dei gruppi: “Un gruppo è un insieme non casuale di più persone che hanno, anche limitatamente nel tempo, bisogni, motivazioni, fini comuni e alcuni valori condivisibili” (p. 42).

Per concludere questo rapidissimo excursus storico, diciamo che tre sono state le tappe della costruzione di pratiche e teorie sul lavoro di gruppo, prima della fase attuale, in cui le scienze sociali si sono appropriate di questo tema nei più svariati campi di ricerca e “intervento” concreto:

• nel XIX-XX secolo, nel campo (molto “pratico” e considerato all’inizio di valenza non generale) dell’innovazione pedagogica. Si ricordano gli esperimenti di “mutuo insegnamento” di A. Bell in India, le “scuole nuove” che negli USA a inizio Novecento si ispiravano al pensiero di J. Dewey, fino al “metodo dell’autogoverno” in ambito tedesco o alla scuola montessoriana in Italia. Tutto ciò sta alla base delle tante esperienze di cooperative learning, che nell’ultimo decennio del secolo scorso si affacceranno con pieno titolo tra le esperienze più significative di “lavoro di gruppo”;

•    le comunità terapeutiche, come abbiamo visto, che da Bion in poi avranno una grande evoluzione, in Italia segnata dall’esperienza di Franco Basaglia;

•    Le pratiche in ambito aziendale (gruppi di lavoro, teorie del team-work, gruppi di produzione, gruppi di management…). Come per tante tecniche che a noi interessano dal punto di vista della progettazione partecipata in ambito territoriale (gestione dei conflitti, focus group, brainstorming, ruoli di leadership…), anche in questo caso l’ambito dell’innovazione nella gestione aziendale ha svolto un ruolo, non sempre pionieristico ma sempre importante, nell’affinamento di molte tecniche e nella strutturazione di esperienze significative (soprattutto in area anglosassone).
Ciò non toglie che le scienze sociali, e una miriade di esperienze nei più diversi campi ad es. del volontariato, hanno negli ultimi decenni esteso enormemente l’utilizzo di tali tecniche e teorie, arricchendole di motivazioni e finalità che spesso vanno molto al di là dell’ambito “aziendale” e di obiettivi puramente produttivisti.


Sergio De La Pierre

Per saperne di più
Bion W.R., Esperienze nei gruppi, Armando editore 2004;
Bobbio L. (a cura di), A più voci, Edizioni Scientifiche Italiane 2004;
De Sario P., Professione facilitatore, Franco Angeli 2005;
Di Nubila R.D., Dal gruppo al gruppo di lavoro, Tecomproject 2000;
Gordon Th., Leader efficaci, Edizioni La Meridiana 1999;
Liss J., La valorizzazione della negatività: quando il facilitatore viene criticato, in De Sario 2005u, cit., pp.145-151;
Quaglino G.P., Casagrande S., Castellano A., Gruppo di lavoro. Lavoro di gruppo, R. Cortina 1992.


Fonte dell'immagine di apertura: idearomaonlus.it


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