Dalla partecipazione alla democrazia partecipativa (seconda parte)

Proseguiamo il discorso sul concetto e la pratica della “democrazia partecipativa”, ovvero quel processo virtuoso che mette in relazione costruttiva e creativa il “protagonismo” dei cittadini con i processi decisionali delle istituzioni, specie a livello locale.
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Nel nuovo mondo caratterizzato dalla fine delle certezze ideologiche del XX secolo e da profonde crisi economiche e sociali, la parola “partecipazione” finisce con l’assumere il significato di “farsi carico in prima persona”, possibile “protagonismo a tutto campo” dei cittadini (specie quelli delle fasce “deboli” della popolazione), per la ri/costruzione di comunità locali “autosostenibili” – per usare un termine centrale nell’elaborazione della scuola di pensiero del “territorialismo” italiano che fa capo ad Alberto Magnaghi. Esperienze “partecipative” di vario segno si sono così diffuse anche nel “Primo mondo”, utilizzando tecniche di “urbanistica partecipata” spesso di origine anglosassone (e magari nate in ambito aziendale) come il brainstorming, il Community planning, il Consensus building e soprattutto, con sempre maggiore diffusione, l’Open Space Technology (che descriveremo meglio in successivi interventi).

Quel che ci interessa sottolineare è il fatto che la “partecipazione”, nata spesso per affrontare problemi sociali che le istituzioni tradizionali non erano (o non sono mai state) in grado di risolvere, si configura all’inizio quasi sempre come “partecipazione dal basso” (bottom up), ma in alcune amministrazioni locali si fa sempre più strada la necessità di una svolta delle loro tecniche di governance in senso “partecipativo”. Questa “partecipazione dall’alto” (top down) tuttavia comporta dei rischi, nel senso di sovrapporre alle esigenze dei cittadini “partecipanti” le logiche burocratiche e le tempistiche delle istituzioni, e soprattutto di trasformare i percorsi partecipativi in tecniche di costruzione del consenso verso decisioni sostanzialmente già prese. D’altro canto una partecipazione esclusivamente “dal basso” corre rischi opposti: contrariamente ai rappresentanti istituzionali, i “cittadini attivi” che intendono “partecipare” sono sempre un’esigua minoranza della popolazione (il 2-4% nei casi più strutturati) e quindi non possono avere pretese “rappresentative” dell’intera cittadinanza. Se poi continuano a portare avanti le loro elaborazioni e i loro progetti in modo autonomo, “solo dal basso”, senza alcuna sponda istituzionale, rischiano di elaborare magari soluzioni meravigliose ai problemi socio-territoriali senza alcuna possibilità di implementarli con la necessaria titolarità giuridica.

Ecco allora nascere, e sempre più diffondersi nella coscienza dei diversi soggetti che operano nella “partecipazione”, la consapevolezza della necessità di costruire in ogni percorso partecipativo, perché esso abbia successo, un’interlocuzione costante tra istanza istituzionale e “galassia” della società civile che lavora a un determinato progetto. Questa “relazione feconda”, che ha prodotto anche in Italia esperienze significative, è quella che si chiama “democrazia partecipativa”: quindi non solo decisioni prese in nome della democrazia indiretta delle elezioni canoniche, che spesso generano negli eletti la presunzione di “poter fare quello che vogliono”, ma nemmeno “partecipazione” priva di ogni effettivo potere decisionale, che al massimo si riduce a “consultazione” dei cittadini da parte di amministrazioni più sensibili.
La democrazia partecipativa dunque significa un processo virtuoso (non privo naturalmente di problemi, conflitti, difficoltà che si tratta di volta in volta di affrontare in modo “autoriflessivo”) che mette in relazione costruttiva e creativa il “protagonismo” dei cittadini con i processi decisionali delle istituzioni, specie a livello locale.

Questa definizione è alla base, mi pare, di una declinazione più matura del concetto di partecipazione. Questa parola contiene il termine “parte”, dunque implica la parzialità di posizione e di potere di qualcuno nei confronti di un’altra entità che si presume essere “il tutto”. Questa è l’idea sottesa alla partecipazione declinata solo “dal basso” o solo “dall’alto”. La democrazia partecipativa invece implica un ruolo essenziale, ma anche una rimessa in discussione dei significati “autoconsapevoli” dei due soggetti in campo: le istituzioni e la società civile. Le istituzioni perdono le loro pretese “totalizzanti” e le aggregazioni sociali perdono il loro perenne senso di impotenza. Partecipazione finisce così col significare parte-in-azione (o partner-in azione), consapevolezza della parzialità di tutti i soggetti in campo, la quale soltanto può fondare davvero un’idea di partecipazione come possibilità di “fecondazione reciproca” tra soggetti sociali tutti consapevoli dei propri limiti e quindi dell’indispensabilità dell’altro, del rapporto con l’altro.



Per saperne di più
G. Ferraro, Rieducazione alla speranza. Patrick Geddes planner in India, 1914-1924, Jaca Book 1998;
P. Savoldi, Giochi di partecipazione. Forme territoriali di azione collettiva, Franco Angeli 2005 (vi si descrivono, tra altre, le esperienze di Adriano Olivetti, Giancarlo De Carlo e Danilo Dolci);
A. Magnaghi, Il progetto locale. Verso la coscienza di luogo, Bollati Boringhieri 2010.




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Re: Dalla partecipazione alla democrazia partecipativa (seconda parte)
29/11/2012 Giuseppe Maria Greco
Il concetto di "fecondazione reciproca", per quanto vada chiarito, è logico. Il problema sta nell'attuarlo in pratica. Le due "parti" in questione, infatti, non solo debbono essere disponibili a lasciarsi "suggestionare" reciprocamente, ma per giungere a questa disponibilità devono mettersi in discussione e modificare la propria idea di sè, che deve evolvere nella consapevolezza della propria "parzialità" o, in altri termini, del proprio "bisogno" dell'altra parte(a questo proposito, mi sembra che l'idea di "progetto" lanciata all'inizio del mandato di Pisapia sia rimasto , da questo punto di vista, fermo alle intenzioni). Concetto che riprende la "rimessa in discussione dei significati “autoconsapevoli” dei due soggetti in campo" indicata nell'articolo.Le primarie in corso sono l'esperienza immediata che consente un confronto tra l'idea di partecipazione e la pratica cui oggi si è arrivati. Non mi sembra che, per quanto rappresentino certamente un passetto in avanti (anche se con circa dieci anni di ritardo), siano capaci di superare la soglia del ridursi "a “consultazione” dei cittadini da parte di amministrazioni più sensibili." Dopo le primarie, infatti, i cittadini resteranno quelli di prima con qualcosina in più da raccontare, e così i partiti, per quanto la smossa data alla destra potrà forse in futuro ribilanciare la nostra democrazia zoppa.


 
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