Per una Primavera di Pace. Quando si parla di “conflitto”
Proseguiamo con la serie di incontri con Gianmarco Pisa, membro dell'Istituto Italiano di Ricerca per la Pace - Corpi Civili di Pace e ragioniamo sulle parole guerra e conflitto. Sono 50 oggi le guerre in corso sul pianeta. Possiamo chiamarle conflitti?
(Gianmarco Pisa - IPRI CCP)25/03/2024
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Di cosa si parla quando si parla di conflitto? Si tratta di un termine fin troppo corrente, la cui vastità rischia, proprio per questo, di non esprimere appropriatamente l’entità dei fenomeni a cui si riferisce, degli eventi che intende descrivere.
È, quello in corso a Gaza, un “conflitto”, o magari la fase attuale del “conflitto israelo-palestinese”?
E perché usare lo stesso termine, “conflitto”, per descrivere situazioni completamente diverse, dai conflitti di coppia ai conflitti sociali, tanto per indicare due tra gli esempi più frequenti?
È un’ambiguità, troppo spesso intenzionale, che non nasce dalla parola in sé, ma dall’uso che se ne fa.
A Gaza oggi, come in Siria, in Libia, nello Yemen, come tempo addietro nei Balcani, come oggi in Ucraina e in tante situazioni in giro per il mondo, c’è la guerra: conflitti che si svolgono, in forma armata, tra soggetti organizzati, tipicamente entità, istituzioni, Stati.
Che questa sia una vera e propria, drammatica, “cifra” del nostro tempo, lo dimostrano i dati dell’ACLED, secondo i quali sono 50 le guerre in corso sul pianeta, nei cinque continenti.
Ecco perché non si può parlare di un generico “conflitto israelo-palestinese”: non vi è equivalenza tra le forze in campo e, oltre al ricorso alla violenza armata, non si può nascondere il fatto che vi sia uno Stato occupante (Israele) e un popolo sotto occupazione (i palestinesi).
Conflitto è altra cosa: è la situazione di incompatibilità tra due o più soggetti derivante dall’esistenza di ragioni, interessi, bisogni, obiettivi e finalità contrastanti. Quindi è una condizione normale della vita sociale: è una dinamica di interazione che può sorgere nel momento stesso in cui si svolge tale interazione, legata alle differenze che naturalmente esistono tra le persone, i gruppi, le comunità.
È, quello in corso a Gaza, un “conflitto”, o magari la fase attuale del “conflitto israelo-palestinese”?
E perché usare lo stesso termine, “conflitto”, per descrivere situazioni completamente diverse, dai conflitti di coppia ai conflitti sociali, tanto per indicare due tra gli esempi più frequenti?
È un’ambiguità, troppo spesso intenzionale, che non nasce dalla parola in sé, ma dall’uso che se ne fa.
A Gaza oggi, come in Siria, in Libia, nello Yemen, come tempo addietro nei Balcani, come oggi in Ucraina e in tante situazioni in giro per il mondo, c’è la guerra: conflitti che si svolgono, in forma armata, tra soggetti organizzati, tipicamente entità, istituzioni, Stati.
Che questa sia una vera e propria, drammatica, “cifra” del nostro tempo, lo dimostrano i dati dell’ACLED, secondo i quali sono 50 le guerre in corso sul pianeta, nei cinque continenti.
Ecco perché non si può parlare di un generico “conflitto israelo-palestinese”: non vi è equivalenza tra le forze in campo e, oltre al ricorso alla violenza armata, non si può nascondere il fatto che vi sia uno Stato occupante (Israele) e un popolo sotto occupazione (i palestinesi).
Conflitto è altra cosa: è la situazione di incompatibilità tra due o più soggetti derivante dall’esistenza di ragioni, interessi, bisogni, obiettivi e finalità contrastanti. Quindi è una condizione normale della vita sociale: è una dinamica di interazione che può sorgere nel momento stesso in cui si svolge tale interazione, legata alle differenze che naturalmente esistono tra le persone, i gruppi, le comunità.
Come si dice nella ricerca per la pace, dunque: la questione non è tanto il conflitto in sé, ma la modalità con cui si decide, si sceglie, di gestirlo e, possibilmente, di trasformarlo.
Una crisi è sempre, al tempo stesso, un pericolo e un’opportunità.
Una crisi è sempre, al tempo stesso, un pericolo e un’opportunità.