Intervista a Irven Mussi, medico di base

Lui la chiama la malattia della solitudine. In questa intervista ci racconta il suo vissuto. Le sue analisi. Le segnalazioni inascoltate all’ATS e alla Regione. Il punto di vista di una medicina che vuol essere diversa: radicata nel territorio, nei luoghi, nelle case, negli habitat sociali della città. ()
MAGRITTE
Irven Mussi è un MMG, un medico di medicina generale della nostra zona, il suo ambulatorio è in via Palmanova. Fin da gennaio ha visto casi sospetti e anomali e li ha denunciati sia all’ATS, sia in Regione, ma senza trovare alcun ascolto.
Lo incontriamo, virtualmente, e gli chiediamo di raccontarci tutta questa drammatica vicenda dal punto di vista di un medico che ha rischiato tanto e che in questi tre mesi ha visto morire 64 colleghi. Che cosa ha visto, che cosa ha capito di questa malattia? …e scopriamo le tante verità che i bollettini delle 18.00 non hanno voluto sapere e tanto meno raccontarci.

Come e quando, voi medici di base, vi siete accorti che qualcosa non andava?
Fin da gennaio, anzi forse in alcuni casi fin da dicembre, abbiamo cominciato a vedere tutta una serie di influenze e polmoniti che non rispondevano agli antibiotici e duravano tantissimo e con quadri anche parecchio impegnativi. Li mandavamo in ospedale per una radiografia e veniva diagnosticata una polmonite interstiziale. Succedeva prima del Covid e prendevamo ovviamente per buona la diagnosi, ma i casi erano molti, e la frequenza di queste polmoniti atipiche era sospetta. Allora abbiamo iniziato a segnalarle all’ATS e in Regione, e perfino al Ministero, ma tutti ci hanno preso in giro, nessuno ci ha dato risposta.
Adesso, invece, viene ormai ammesso ufficialmente, anche dalla Regione; e in uno studio si dimostra che questo virus era presente in Lombardia sicuramente almeno da gennaio, più esattamente che il 21 di gennaio erano già presenti in Lombardia almeno 1200 casi.

Ricorda qualche caso emblematico di questa mancanza di ascolto?
Sì, ricordo una mia paziente che si era ammalata il primo di febbraio, l’ho curata con antibiotici, ma non migliorava, poi ha cominciato a desaturare e quindi, intorno alla metà di febbraio, l’ho fatta ricoverare. Di lì a pochi giorni sarebbe scoppiato il primo caso di covid-19. Le han fatto le radiografie, polmonite interstiziale la diagnosi, è rimasta due o tre settimane in ospedale durante le quali, sia lei che io abbiamo costantemente “litigato” con l’ospedale perché le facessero il tampone, ma è stata dimessa senza che glielo avessero mai fatto.

Arriviamo a fine febbraio, quando viene fatta la zona rossa a Codogno. Normalmente con molti colleghi teniamo delle chat per confrontarci su diagnosi, terapie, ci scambiamo informazioni, impressioni… più passavano i giorni, più emergevano casi; i colleghi soprattutto della Val Seriana, ma anche un po’ di Brescia iniziavano a segnalare su questa chat sempre più casi. I primi due o tre giorni non riuscivamo a crederci. Ma presto ci rendiamo conto che bisogna intervenire e quindi iniziamo a scrivere, telefonare, mandar segnalazioni, lettere in ATS, in Regione anche al Ministero. “Se avete fatto la zona rossa a Codogno, qui bisogna mandar l’esercito!” Eravamo davvero allarmati.

Ecco. Questi sono stati i primi gravi errori che si son fatti in Regione Lombardia: nessun tampone, nessun ascolto dal territorio, nessun contenimento.

E voi Medici di Base, dopo le lettere, che cosa avete fatto?
Abbiamo continuato a visitare. Tantissimi di noi hanno iniziato ad ammalarsi, perché fino a quel momento avevamo visitato normalmente, senza protezioni.
Alcuni si sono ammalati, 64 sono morti. Parlo della Lombardia. Sai, all’inizio il 70% dei medici morti erano Medici di Medicina Generale; poi la percentuale è diminuita, ma siamo ancora intorno al 40/50%.

Molti amici sono mancati. Mi mandavano dei messaggi. Sapevano che cosa stavano vivendo in prima persona. Eccone uno di fine febbraio “La febbre mi ammazza. Mi toglie il respiro. Alzo l’ossigeno, ma inutilmente. Ho una nausea incredibile, non riesco a mangiare”.
Marcello, un mio amico, uno dei primi medici morti, con un’incredibile razionalità mi scrive: “Io purtroppo non vado bene. Desaturo. Pure con 2 litri d’ossigeno non arrivo a 75. Entro breve tempo sicuramente mi intuberanno”. Due ore dopo ha telefonato alla moglie e l’ha salutata. Da lì, non abbiamo saputo più nulla. Senza avvertire nessuno, l’hanno portato da Codogno a Cremona, da Cremona a Milano. Due settimane dopo è morto.

Quest’assenza di notizie è terribile. Forse il lato più crudele di questa malattia.
Questo è uno dei suoi drammi pazzeschi: sei solo. Questa è la malattia della solitudine.
All’inizio il personale infermieristico riusciva a far mantenere un po’ il contatto, ma quando si è in rianimazione, intubati, si è soli. Disperatamente soli. E sole sono anche le persone che ti vogliono bene. I tuoi amici, gli affetti, le mogli o i figli, non sanno più niente di te, sono soli. Poi se ti arriva la comunicazione che il tuo parente è morto, neanche allora hai la consolazione di qualche vicinanza perché visto che hai avuto contatti con un Covid sei in quarantena pure tu. Si moriva da soli e i parenti rimanevano soli nel loro dolore.

Ma a questo punto, sono arrivate risposte alle vostre sollecitazioni?
La prima richiesta che ho spedito alle istituzioni, insieme ad altri 60 o 70 colleghi, non ricordo bene il numero, l’ho scritta al primo di marzo e non ho avuto nessuna risposta per quindici giorni. Un funzionario della Regione dopo un paio di settimane ci scrive che secondo le indicazioni dell’OMS per la protezione di medici e infermieri sono sufficienti le mascherine chirurgiche (che fra l’altro non si trovavano neanche più in vendita). Ma se vanno benissimo normalmente, noi sappiamo che in realtà non servono quando hai un contatto diretto con un paziente Covid!
Questa lettera è del 1 di marzo. Quindi, in piena pandemia, noi ci siamo trovati ancora scoperti, non dico al fronte o in trincea, ma sicuramente totalmente esposti, senza davvero nessuna contenzione, nessuna linea guida, ma soprattutto con l’angoscia, la paura di essere noi portatori di malattia. Perché oltre al rischio nostro, c’era quello per i nostri famigliari e per tutti i pazienti e le persone che incontravamo.

E come avete fatto?
Noi ci siamo isolati. La nostra paura era di essere dispensatori di virus! Io ho due figlie e un nipotino di 8 mesi e non li sto più vedendo da allora. Ci vediamo solo in video-chat. Io, che sono un anti-tecnologico, ora dico “video-chat sante”! e poi, quando posso, vado a vedere il mio nipotino da sotto il balcone. Fino a che non è finita, non mi fido ad avvicinarmi.
Dal 21 febbraio sto in un’altra casa, da solo. Anche se poi a casa ci son stato proprio poco perché oltre all’intensificarsi del lavoro, in questo periodo sto facendo anche il volontario all’hotel Michelangelo.

Ma per le visite a domicilio non erano state attivate le Unità Speciali di Continuità Assistenziale?
Per affiancare i medici di base avrebbero dovuto esserci anche le USCA, dei medici di guardia medica dotati dei dispositivi di protezione che potevano andare a visitare, misurare la saturazione. Ma il problema è che ne son state fatte pochissime e sono entrate in funzione a fine Aprile, inizio Maggio, quando in realtà il bisogno era diminuito.
Io non le ho mai attivate, son sempre andato io a visitare i miei pazienti.

Ha detto che sta facendo anche il volontario all’Hotel Michelangelo…
Sì. È l’hotel di 19 piani che c’è di fronte alla stazione centrale.
A un certo punto uno dei problemi più grandi che abbiamo avuto era l’isolamento. Perché l’unico modo di bloccare questa malattia è individuare i malati con un tampone e, se positivi, identificare tutti i loro contatti e, se positivi anche quelli, isolarli a loro volta.

Cioè quello che era stato fatto inizialmente a Codogno e poi più, ma che ha continuato ad essere la pratica in Veneto. Giusto?
In Lombardia hanno fatto questi due grossi errori. Innanzitutto il tampone è stato fatto solo a chi arrivava in Pronto Soccorso, quindi con sintomi gravi, rinunciando quindi a identificare i tanti casi esistenti e i loro contatti. E poi l’isolamento: non solo degli asintomatici, ma anche di chi veniva dimesso dall’ospedale e doveva ancora rimanere in isolamento, perché sappiamo che la contagiosità perdura anche per settimane dopo che la fase acuta si è conclusa.
A Milano non tutti gli appartamenti sono grandi e spaziosi! Nelle case da 50 mq, nei mono o bilocali, nelle case popolari è impossibile isolarsi dai familiari!
Quindi bisognava fare fin dall’inizio una serie di strutture dove accogliere chi dovendo restare isolato non poteva farlo in casa sua. Ma a Milano questo è stato fatto solo verso il 20/21 aprile, Solo allora hanno destinato questo maxi albergo a chi deve restare in isolamento, ma non può farlo in casa. All’inizio erano soltanto militari che avevano contratto la malattia, ma poi anche i dimessi dagli ospedali che superata la fase acuta, vengono dimessi dall’ospedale, ma sono ancora positivi; devono restare in isolamento, ma non ne hanno la possibilità.

Quante persone accoglie questa struttura e per quanto tempo ?
Sono presenti in media 200 assistiti, ogni giorno ne escono 15/20 e ne entrano altrettanti. È un albergo quindi è confortevole, ma si è veramente un po’ come in prigione. Quando entri naturalmente non puoi uscire. Ci sono i militari sulla porta. Ogni giorno portano i pasti, ma senza entrare in camera; la mattina e la sera passa un infermiere a misurare i parametri e a verificare che non insorgano problemi e in caso di necessità interviene il medico.
E tutto questo dura mediamente una ventina di giorni, ma la durata dell’isolamento può variare; si rimane fino a che non ci sono due tamponi negativi.
Fino a venerdì scorso abbiamo lavorato noi medici con un’associazione che si chiama Medici Volontari Italiani. Oramai questo progetto è stabilizzato. Ci sono meno casi, molti possono essere monitorati a domicilio e dal 22 maggio, quindi, sono subentrate le USCA.

Una malattia infinita, un ulteriore isolamento
Ho la sensazione che tutto questo dramma, l’orrore di questa malattia che non si conosce e non si riesce a controllare, il lavoro senza protezioni, la sofferenza della solitudine, l’angoscia di non sapere come va, questa tosse che non si placa, la fame d’aria, la lontananza dagli affetti … e poi chi, da ricoverato, scopriva la mattina che il vicino di letto con cui aveva parlato la sera prima, nella notte era morto… Beh, chi non l’ha vissuto dall’interno, chi non ha avuto un parente morto… ho la sensazione che non abbia percepito che cosa è stato veramente. Chi non è stato ferito nell’anima non capisce che cosa è successo.

È vero, verissimo. Mentre si consumava il dramma, noi assistevano chiusi in casa al bollettino quotidiano che recitava i numeri del contagio.
Sì. Si pubblicavano i numeri. Ma quali?
Ora io ho fatto un’inchiesta fra i colleghi qui a Milano, mi hanno risposto in tanti e dai dati provenienti dalle nostre esperienze sul campo abbiamo capito che rispetto ai numeri ufficiali, che in pratica erano solo quelli del Pronto Soccorso, i pazienti reali erano almeno dieci volte tanto. Dei nostri pazienti, infatti, almeno il 90% era seguito a domicilio e solo il 10% veniva ricoverato! Poi c’erano tutti gli asintomatici di cui nessuno può sapere. Noi calcoliamo che almeno 1 su 4 degli infettati possa essere portatore sano.
I numeri possono essere fuorvianti e bisogna leggerli con attenzione. Anche il numero di tamponi, per esempio, non dice nulla sul numero delle persone testate, perché alla persona che risulta positiva, bisogna fare almeno altri tre o quattro tamponi prima di averne due negativi.

In base ai vostri dati puoi fare una stima dei contagiati a Milano?
In pratica, su Milano secondo i miei calcoli, le persone che son venute in contatto col Covid sono fra le 130.000 e le 200.000 (N.d.R. dati ufficiali su Milano non raggiungono i 10.000) e una conferma a questa stima ci viene anche dai test sierologici che si stan facendo ora e che danno una percentuale di positivi fra il 10 e il 12%.
Parimenti, i contagiati in Italia secondo i dati ufficiali sono circa 225.000, ma in verità, secondo i nostri calcoli sono fra il milione e mezzo e i due milioni.

Una differenza enorme!
Sì, perché per mesi i numeri ufficiali soprattutto in Lombardia erano dati solo dai tamponi fatti.
Devo dire però che dal 10 maggio i numeri che vengono dati sono abbastanza corrispondenti. Ora, se visitiamo un paziente con un po’ di febbre o anche solo altri sintomi specifici e sospetti come tosse, disturbo dell’olfatto, del gusto tipici dl Covid, possiamo chiedere il tampone e se è positivo individuare e controllare i suoi contatti e quindi bloccare il diffondersi della malattia.
Il problema vero, la grossa accusa da parte di noi medici era proprio che qui in Lombardia non potevamo fare i tamponi ai nostri pazienti.

Forse all’inizio era difficile fare tamponi a tutti perché siamo stati come travolti da uno tsunami.
Questo è un paragone che è stato fatto, ma io non trovo sia adeguato perché lo tsunami è una catastrofe improvvisa, da cui non puoi difenderti per niente. Io direi piuttosto come le valanghe che si formano a poco a poco perché iniziano piccole, poi scendono lungo il pendio e diventano sempre più grosse fino in fondo e a quel punto non si può far altro che raccogliere i morti. Ma la capacità è quella di cogliere il momento in cui si sta formando la valanga! E questo è stato l’enorme errore di Regione Lombardia. Che non ha gestito la questione sul territorio quando era più circoscrivibile, ma intervenendo solo a livello ospedaliero.

Ma ora finalmente i tamponi si fanno. Che valutazione dà delle nuove delibere?
È vero, ora per i nuovi malati si può finalmente chiedere il tampone, che è l’unico modo per sapere se si è positivi o no, e in caso di positività si vanno a verificare tutti i loro contatti.
E questo è bene, molto bene. Ma abbiamo ancora un grosso problema sul passato.
Dal 10 maggio per chi deve tornare al lavoro possiamo chiedere il test sierologico, da cui si capisce se si ha avuto o no un contatto col Covid. Il problema è che i tempi sono lunghissimi.
Per esempio, per un mio paziente per il quale ho appena chiesto il test (n.d.r. 22 maggio), mi han dato l’appuntamento per il 20 di giugno! Io stesso, come medico, l’ho fatto due settimane fa (perché ora l’ATS lo richiede) e sto ancora aspettando l’esito. E sono un medico e potrei essere portatore di virus!

Perché tutto questo tempo? È assurdo!
Tutto questo lascia spazio ai privati. Ora per gli ambulatori privati è iniziato un nuovo business. Perché è chiaro che se devi tornare al lavoro, ti rivolgi a chi entro due giorni ti dà il risultato.
Non voglio disconoscere l’importanza d’aver cambiato l’approccio ai nuovi casi: la possibilità di testare i nuovi malati e di tracciare i loro contatti è essenziale. Ma d’altra parte queste delibere hanno aperto questo nuovo profittevole mercato dei test sierologici favorito anche dalla lentezza della risposta del pubblico. (n.d.r. in altre regioni test sierologici e i tamponi rientrano a tutti gli effetti tra le prestazioni del Servizio Sanitario Nazionale, sono tempestivi e non devono essere pagati )

Che succede se il test risulta positivo?
Nel test si misurano le IGM e le IGG. Si capisce, cioè, se si sono sviluppati gli anticorpi. Ma avere gli anticorpi non vuol dire che non si possa essere ancora potenzialmente contagiosi, quindi di default, bisogna fare il tampone. La situazione migliore si verifica quando le IGG sono positive e il tampone negativo, perché vuol dire che ci sono gli anticorpi e non si è contagiosi. La protezione anticorpale in realtà non sappiamo quanto dura, ma sicuramente per un po’ protegge.

Parliamo della diffusione di questo virus.
Dal 25 Maggio parte la ricerca a livello nazionale su campione rappresentativo di 150.000 persone e avremo finalmente dei dati veri. Noi adesso abbiamo solo dei dati probabili che dicono che a Milano sono positivi fra il 10 e il 12%, e a Bergamo il 34% !
Il dramma qui si è verificato per due motivi fondamentali. Il primo è che Regione Lombardia non ha deciso di tamponare i pazienti per bloccare l’espansione della malattia. Avremmo avuto molti morti, certo, ma un quarto, un quinto di quelli che ci sono stati. E l’altro terribile errore è il non aver creato la Zona Rossa in Val Seriana, probabilmente per interessi industriali e politici. Senza contare la terza cosa, che a me sembra proprio inconcepibile, lo scandalo delle RSA, con il 50% dei morti proprio lì.

La malattia ha colpito diverse fasce sociali, tutte allo stesso modo?
In tutto il mondo è successo questo. Il virus ha colpito inizialmente i ricchi, perché viaggiano di più, prendono l’aereo, ma poi si è spostato verso le fasce più deboli della popolazione e in forme sempre più gravi perché chiaramente hanno meno possibilità di cura. Il Brasile ne è l’esempio più evidente, dopo i primi casi, il dramma lì è nelle Favelas e in Amazzonia.

E per quanto riguarda Milano?
La distribuzione anche a Milano mostra che la minor incidenza l’abbiamo al centro, per intenderci zona 1 (cap 20123). Mentre la maggior incidenza è a nord: Affori, Niguarda, Quarto Oggiaro; perché a Bresso abbiamo avuto molto presto dei casi importanti di Covid e da lì si sono irradiati nelle aree vicine e periferiche. Unica eccezione, il quartiere Adriano e Viale Monza. Su Repubblica si diceva che anche Via Padova è un’ eccezione, ma non è vero perché un’altra zona molto colpita è il cap 20132 che parte da Via Padova e arriva praticamente fino in Pza Udine (zona 3), tutta la zona di Via Rizzoli, Crescenzago.

Alcuni dicono che il virus si è indebolito. Lei che ne pensa?
A livello genetico non è cambiato nulla anche perché tutti gli studi sono concentrati su quella proteina particolare del virus che gli permette di attaccare le cellule, e questa è rimasta esattamente uguale. Questo è vantaggioso, dal punto di vista della ricerca del vaccino, perché se il virus non muta, abbiamo speranza di sviluppare il vaccino (bloccando la proteina, il virus non è più in grado di attaccare le cellule).
Sul territorio, però, noi vediamo casi meno gravi. Credo che un piccolo cambiamento ci sia, non del virus, ma forse delle condizioni della vita delle persone, delle condizioni ambientali, forse anche dell’approccio terapeutico… il clinico vede delle differenze: per esempio ora vengono più frequentemente colpiti i ragazzi e si sta equiparando la percentuale fra maschi e femmine. Nell’ultimo mese sono molto più frequenti i sintomi gastroenterici e i sintomi a livello dermatologico che prima erano rari, o che forse colpivano solo i casi più gravi di persone ospedalizzate che noi di base non vedevamo.

Il virus non muta, ma mutano i suoi effetti...
Già. Nessuno è ancora in grado di dirlo. Il ricercatore dirà che non è cambiato niente dal punto di vista genetico. Ma il clinico vede differenze.

La terapia è cambiata?
Noi medici di base non abbiamo mai avuto linee guida. Per cui ci siamo fatti noi, sul territorio, delle linee guida confrontando i casi e le esperienze. Non abbiamo ancora delle sperimentazioni sufficienti per avere indicazioni terapeutiche sicure.
Per esempio, si parla dell’idrossiclorochina e di altri farmaci antimalarici: alcuni dicono che è un toccasana, altri che funziona in modo relativo, altri ancora che ha effetti tossici troppo pericolosi. In realtà stiamo tutti studiando i risultati, ma bisogna dire che gli studi son quasi tutti fatti su casi gravi, a livello ospedaliero. Sarebbe invece importante avere risultati a livello di territorio. Si sono fatte anche queste ricerche, ma i risultati non sono ancora conclusivi.
Anche sugli antivirali abbiamo visto vantaggi e svantaggi, ma stiamo aspettando i risultati delle ricerche.

Anche sul fronte della cura, dunque, ancora nessuna certezza.
Noi siamo stati accusati di mandare in ospedale solo situazioni gravi, ma non era possibile altrimenti. Se non c’era una condizione grave, il 118 non la prendeva nemmeno in considerazione.
Il farmaco che secondo me ha cambiato veramente la vita è stato l’eparina. Perché il problema vero era che si formavano delle trombosi a livello dei vasi, soprattutto a livello dei vasi polmonari. Per cui l’intervento terapeutico principale è stato quello di tener scoagulato il sangue e prevenire questi trombi e lì abbiamo visto il cambio vero di prospettiva terapeutica.
Io ho iniziato a usarlo verso il 10 marzo perché avevo visto le autopsie di Bergamo e tutti morivano di trombosi vasale. Ora è diventato un uso costante e obbligatorio.

Ha qualche raccomandazione per i nostri lettori?
Il virus è ancora presente. In Aprile la maggior parte dei casi l’abbiamo avuta nelle RSA, ed è stata una cosa pazzesca, ma al secondo posto di questa triste graduatoria c’è il contagio interfamiliare, cioè all’interno di gruppi ristretti di amici o parenti, ma sempre in casa, non sul lavoro.
Questo significa che non possiamo assolutamente allentare il controllo. Bisogna mantenere l’attenzione alta. Il virus non è sconfitto. Bisogna mantenere il distanziamento di un metro e mezzo, portare le mascherine correttamente (non sul collo!). Ma fare attenzione soprattutto nei luoghi chiusi.
Perché non ci si infetta all’esterno, ci si infetta dentro casa!
La cosa importante è avere attenzione in
situazioni particolari come le festicciole famigliari, gli incontri con gli amici. Sono queste le situazioni più a rischio. Bisogna arieggiare molto la casa, evitare l’assaggino dal piatto dell’amico, lavare le mani e usare un asciugamano personale, insomma tenere le distanze il più possibile, anche se è difficile.
Un esempio che mi è molto vicino: i miei fratelli si sono ammalati tutti perché, in Trentino quando ancora non si sapeva nulla, han fatto una festa di compleanno. Un mio fratello guida l’ambulanza e senza saperlo aveva portato un Covid in ospedale: li ha fatti ammalare tutti.

Quindi, non abbassare la guardia. Ed è tutto?
No. C’è un’altra raccomandazione importante. Bisogna ricordare che ci sono anche le altre malattie e stanno tornando.
Per un certo periodo non ci abbiamo più pensato. Ma i morti d’infarto, per esempio, sono aumentati del 30%; le persone avevano così paura del Pronto Soccorso che cercavano di evitarlo fino all’ultimo. Ma la sopravvivenza per l’infarto è strettamente correlata al tempo che passa tra i primi sintomi a quando si arriva in Pronto Soccorso, un tempo che prima era mediamente di due ore e ora i dati ci dicono che è diventato di sette ore portando ad un aumento spaventoso della mortalità.
Una cosa simile accade anche per altre patologie che vengono trascurate, sempre per la paura di “andare ad infettarsi” in ospedale. Ora bisogna riprendere tutte le cure. Qui rischiamo, soprattutto a livello cardiovascolare, che nei prossimi mesi ci siano più morti per le conseguenze indirette di quest’emergenza che per il Covid stesso.

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