Il PGT è adeguato al governo delle trasformazioni?

“Tutto cambia”, ma gli strumenti restano ancora gli stessi. Quale ruolo vorrà giocare Milano nel contesto delle trasformazioni in atto e per la ripartenza del Paese? ()
bottini gioia
Lo strumento di pianificazione spaziale di una città è una specie di crogiolo dove finisce dentro di tutto, dal campetto di periferia al profitto delle multinazionali, dall’edilizia di lusso e popolare al salvataggio delle banche appesantite dai prestiti in sofferenza, dalle infrastrutture a rete al riciclo di grandi opere pensate per la città fordista, poi traslate sul terziario e infine diventate zavorra nel bilancio di qualche fondo immobiliare.
Può anche uscirne qualcosa di buono, dal crogiolo, ma il rischio del surriscaldamento, dell’attività edilizia come dei lingotti liquefatti permane. È per questo che i crogioli sono sempre dotati di opportuni sfiatatoi. Anche la città ha i suoi sfiatatoti, è resiliente, come si dice oggi. Ma la resilienza ha un costo e nessun fallimento è gratis.

Il problema generale degli strumenti di pianificazione della città su cui si sofferma tra l'altro l'architetto Gianni Dapri nel suo dialogo con Paolo Morandi è davvero attuale. Sostanzialmente, al di là delle modifiche pur rilevanti di carattere evolutivo, i dispositivi utilizzati dalle amministrazioni sono sempre gli stessi da tempo immemore.
Per averne conferma basta leggere le cronache del piano regolatore di Roma del 1873, all’indomani del compimento del processo di unificazione nazionale. Con una differenza sostanziale, che allora fu la politica nazionale a decidere in prima istanza che cosa la capitale avrebbe dovuto essere.

Una storia da non dimenticare
Il dibattito allora girava attorno al grande tema “fabbriche sì fabbriche no”. Si decise per il no, perché non sarebbe stato dignitoso ricevere capi di Stato esteri tra opifici e ciminiere.
Seguì il lavoro degli urbanisti, anche di valore, vennero poi le leggi per Roma Capitale, una pioggia di denaro e una grande euforia al punto che fu coniata per l’occasione l’espressione “febbre edilizia”. Né la politica alta, né l’urbanistica professionale, né l’opera combinata dei due attori riuscì tuttavia a evitare il disastro. Disastro, non va dimenticato, sia nazionale che locale, al punto che i fallimenti delle imprese territoriali furono offuscati dal crollo a domino di grosse banche e istituzioni finanziarie cui fu posto un argine soltanto con la creazione della Banca d’Italia.

La città e il “sistema-Paese”
Dovrebbe far riflettere che mentre “tutto cambia”, prima per la crisi del 2008, ora per la pandemia, non cambiano né gli strumenti di pianificazione, né il modo di guardare alla città, né il rapporto tra centro e periferia, se per centro intendiamo lo stato nazionale e per periferia la singola città.
E questo credo sia il punto centrale, soprattutto se pensiamo a una città come Milano.
È indubbio che Milano ha saputo imporre uno standard immobiliare di livello. E questo va a merito dei suoi rappresentanti istituzionali. È chiaro che in città, basta ricordare i grandi nomi degli operatori del passato, è cambiato qualcosa. È finito il tempo delle grandi scorrerie edificatorie patrocinate dalle consorterie politico-palazzinare, anche di quelle più recenti, pensando per esempio all’area Innocenti Maserati giustamente appuntata da Dapri. Detto questo resta aperta la grande questione del rapporto della città col livello nazionale, dove per livello nazionale si deve intendere l’intero sistema economico-sociale del Paese.

A Milano si affermò un sistema innovativo
Il richiamo alla suaccennata crisi romana nel periodo post-unitario non è casuale. Fu in quel periodo che Milano si guadagnò il titolo di “capitale morale”, vale a dire di capitale effettiva. La ragione stava nel fatto che, mentre Roma e Napoli soffocavano nelle speculazione edilizia trascinando nel tracollo le banche torinesi e genovesi, Milano si mise alla testa dello sviluppo industriale e sociale del Paese, creando un sistema finanziario innovativo seppur mutuato dall’estero, la banca mista sull’esempio della Germania, realizzando la prima centrale elettrica del continente1, sviluppando un sistema formativo di primordine e arrivando a concentrare nella città, in pochi decenni, quasi la metà del nostro capitale finanziario nazionale.

Oggi che ruolo vuole giocare la città?
Ora la questione si pone in questi termini: quale ruolo sta giocando Milano nel contesto generale del Paese? Essere il primo della classe (quello che governa meglio i flussi finanziari nel settore immobiliare) in una classe con tanti somari non basta.
La grande crisi del 2008 non è affatto risolta e alle sue conseguenze vanno sommate quelle prodotte dal Covid: una su tutte il crollo degli investimenti pubblici e privati e il dilatarsi delle aree di disoccupazione, tutte questioni cui non ci sono risposte, nemmeno a Milano dove pure gli investimenti non mancano.
Ma la questione è sempre la stessa che va posta nei periodi di boom edilizio: questi investimenti, sostenuti unicamente dal ricorso al credito bancario, sono una risposta in controtendenza o piuttosto non finiranno col drenare verso un unico settore, certamente non il più moderno e innovativo, il grosso delle risorse che invece andrebbero meglio indirizzate per affrontare i problemi del nostro tempo?2


[1] In via Santa Radegonda. Davanti al cinema Odeon una targa celebra l’impresa, datata 1883, su progetto dell’ingegner Giuseppe Colombo.

[2]Delle questioni del rapporto tra economia nazionale e sviluppo immobiliare, in riferimento al nostro Paese e a Milano, tratto ampiamente nel libro “La moneta d’argilla. Il mito del mattone all’origine del declino e della crisi bancaria del Paese”, ebook, Ornitorinco, 2017.




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