Workshop Scali Ferroviari, un percorso aperto alla partecipazione? Ne parliamo con un esperto.

Una conversazione con Davide Fortini, esperto in materia, per capire meglio se il Workshop sugli scali ferroviari ha davvero avviato un confronto serio con i cittadini. ()
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Dopo il Workshop sul futuro degli Scali Ferroviari milanesi, tenutosi alla scalo Farini dal 15 al 17 dicembre scorso, abbiamo avuto non poche perplessità partecipando ai tavoli di lavoro, organizzati con l’intento di promuovere un confronto di idee con i cittadini. Abbiamo allora chiesto di esprimere un parere ad un tecnico che si occupa di progettazione urbana e partecipazione.

Davide Fortini architetto, da oltre due decenni opera per la costruzione e la gestione di programmi orientati alla condivisione dei saperi e alla co-progettazione delle politiche urbane. Ha gestito reti di istituzioni per i programmi di sostenibilità. Ha recuperato risorse per la realizzazione dei progetti condivisi. Ha scritto libri, saggi, articoli sulle tematiche, tiene sull’argomento momenti formativi.

La prima domanda che poniamo è se questa iniziativa, che voleva in qualche misura coinvolgere la cittadinanza sul grande tema della trasformazione urbana di vaste aree dismesse dalle FS, avesse un minimo di requisiti per essere considerata un momento di partecipazione..

Direi che questo workshop ha avuto una relazione “debole” con quello che si intende come progettazione partecipata; in termini di processo occorre come minimo un accordo iniziale tra chi propone il tema e chi è invitato a partecipare, mettendo in chiaro qual’è l’oggetto, le finalità, gli obiettivi e gli strumenti a disposizione. Si dovrebbe capire chi manca e lavorare per recuperare le assenze. In termini di contenuti questa occasione sarebbe potuta servire per affrontare il primo livello utile all’accordo di programma, cioè la visione generale della trasformazione dei sette scali e le loro destinazioni prevalenti. Se non c’è chiarezza e trasparenza sulla posta in gioco mancano i presupposti della partecipazione, ossia l’anticipare e gestire i conflitti, il far comprendere le soluzioni possibili ed efficaci, il costruire un processo in cui la soluzione formale non è la fine del processo, ma una tappa, a cui dovranno far seguito tanti altri i passi per dare corpo ad interventi efficaci. Purtroppo sempre più spesso chi parla di partecipazione, mi pare anche alcuni degli interventi istituzionali durante il workshop, la usa come strumento utile a dare una spruzzata di contemporaneità. Fino a quando la progettazione partecipata era attenzione di “nicchia” i casi potevano essere analizzati attraverso scale di valore del livello di qualità; mi sembra che oggi stia diventando una moda e quindi ci si debba unicamente chiedere se questi processi siano veri o falsi.

L intervento dell’ordine degli architetti per avere dei chiarimenti ritenendo poco valorizzato il sapere disciplinare diffuso, è da prendere come un segnale. Come se il modello adottato tendesse a favorire contrapposizioni, in una fase delicata in cui servirebbe il massimo del consenso per costruire un accordo di programma in cui la città si riconosca. Già in qualche altra occasione si sono verificate situazioni simili, ad esempio quando i cittadini si sono rifiutati di partecipare ad un confronto sulla linea M4 perché il modello partecipativo proposto non aveva metodo, veniva gestito da persone prive di esperienza; un’offerta inaccettabile.

Quali possono essere le cause di questi comportamenti, senza voler adombrare malevole intenzioni agli organizzatori?

Veniamo da vent’anni di assenza totale di interesse delle classi dirigenti rispetto al tema della costruzione di contributi sociali alla pianificazione; a “cascata” la struttura interna della macchina amministrativa non è mai stati portata a conoscenza delle opportunità che un processo partecipativo comporta e anzi c’è la tendenza a vedere l’ingresso di voci “nuove” come un intralcio alle loro competenze. Solo con la giunta Pisapia si è iniziato prendere in considerazione il tema e ci auguriamo che l’attuale amministrazione prosegua su questa strada; la creazione nella consigliatura di Sala di un assessorato alla partecipazione e l’attuazione del decentramento amministrativo è stata una bella notizia; tutti sappiamo che si richiede del tempo per un necessario riadeguamento della macchina comunale, ma i segnali che abbiamo ricevuto sinora danno adito ad alcuni dubbi sulla capacità di incidere sulle trasformazioni urbane.

Forse la partecipazione continua a restare più una buona intenzione, che un impegno politico da mettere in pratica?

Diciamo che nella pratica della partecipazione importante è il percorso, tanto quanto il fine da raggiungere. Non è il taglio del nastro, non è un punto di arrivo che culmina con l’inaugurazione di una piazza, semmai questo è l’inizio di un cammino, in cui fissare alcune tappe, perché la piazza possa essere rimodellata in itinere attraverso l’osservazione di come la sistemazione ha ridefinito gli usi. La valutazione di come le opere pubbliche interagiscono con la cittadinanza, la progettazione dello spazio insieme all’idea di gestione dello stesso, il passaggio da spazio pubblico a luogo condiviso; in ciò si attua un programma di progetto partecipato che riassegna alla cittadinanza un ruolo “attivo”.

Il comune ha peraltro deliberato un documento in cui sono contenuti questi elementi e in cui si tracciano le linee guida per la partecipazione; il recente workshop sugli scali ferroviari rappresentava una prima occasione per porre queste linee guida come traccia da seguire, per verificarne i contenuti ma purtroppo non se ne è parlato, a nessuno è venuto in mente di far riferimento a indicazioni di questo tipo.Anche in questo si nota uno scollamento tra il pregresso e il tema posto, come se ogni volta si dovesse ricominciare daccapo, reinventare strumenti che ci sono già senza tener conto di quello che è stato già fatto. Così il tema del progetto partecipato diventa un esercizio vuoto di significato, un gioco fine a sé stesso.

Mi sembra che sia un problema grave, poiché oggi il solco e il divario tra i cittadini e la “politica” si sta ampliando, il mandato di rappresentanza non sembra costituire più un vincolo e un impegno da rispettare nei confronti del corpo elettorale e i partiti non sono più gli ambiti in cui elaborare dal basso programmi e istanze da discutere in un confronto aperto e trasparente con tutte le altre realtà politiche, sociali e territoriali. Stiamo vivendo in una fase di costante regresso democratico e non a caso si moltiplicano movimenti e associazioni di cittadini per reclamare ascolto e partecipazione, o mi sbaglio?

Sono d’accordo e mi pare che nel mondo si stiano delineando e consolidando forme di oligopolio che esprimono figure di leader che decidono con modalità sempre meno inclusive, a fronte di dinamiche sociali che chiedono una partecipazione responsabile. Siamo di fronte a due strade divergenti, da un lato quella delle decisioni prese in totale autonomia dall’alto, dall’altro quella delle discussioni intorno a un tavolo su come affrontare, condividere e risolvere i problemi della comunità, sono le due strade su cui la democrazia sta giocando il suo futuro. La verità è che il ruolo del decisore pubblico è senza dubbio un mestiere difficile che impone delle scelte. Oggi non sappiamo quanto siano condivise affermazioni di studiosi come I.Sachs e J.Friedmann in merito all’essere “promotore di una pianificazione impegnata, contestuale, contrattata e partecipativa, dove il governo esercita una azione per ispirare, dare potere, guidare, facilitare, incoraggiare, assistere ed appoggiare la comunità locale. Non dirigere, comandare e realizzare progetti propri se non per appoggiare lo sforzo generale e perciò al di là della capacità locale”.

Bisogna riconoscere anche che possono esistere parecchie difficoltà da superare nel mettere in campo un processo partecipativo, la complessità delle situazioni, la scarsità delle risorse, la difficoltà a reperire i fondi e la suddivisone tra le fonti di finanziamento. Non sarebbe il caso di pensare a qualcos’altro, ad esempio al dibattito pubblico, che è stato previsto nell’ultima legge sugli appalti pubblici (ma chissà quando e come verranno emanati i relativi regolamenti attuativi)?

Può essere una soluzione, ma anche in questo caso occorre mettere in atto una precisa volontà politica, perché non si può improvvisare un dibattito pubblico degno di questo nome senza aver preso tutti gli accorgimenti che ne consentano lo svolgimento effettivo. Le parti, da un lato il proponente, dall’altro la cittadinanza, devono essere messe in grado di dialogare, si deve incaricare un soggetto terzo capace di gestire il dibattito, non può essere il proponente che si mette a discutere con la controparte. Ci sono processi già contemplati dalle norme che dovrebbero essere armonizzati con il dibattito pubblico, come la Valutazione Ambientale Strategica, che a rigore dovrebbe essere oggetto di dibattito pubblico, ma nulla succede al riguardo . Senza mettere in atto le procedure e le condizioni opportune non si esce dalla retorica dell'affermazione di un principio fine a sa stesso.

Un processo partecipativo potrebbe avrebbe comunque un’ambizione più alta di quella di capire i limiti e suggerire migliorie ad un dato progetto, quella cioè, attraverso il dialogo, il confronto e l’interazione tra i partecipanti, di configurare più opzioni possibili per arrivare a decidere quale sia la preferibile per la comunità.

E’ interessante notare come durante il workshop sugli scali sono stati illustrate le esperienze di altre città europee ed è apparso abbastanza evidente come il modello interpretativo del riuso degli scali sia in genere molto simile, nonostante le città siano del tutto diverse tra di loro. Il modello di sviluppo che viene proposto, è “imitativo” perché il meccanismo con cui si vuol dare valore a questi luoghi è identico in tutti casi, quello della rendita fondiaria, che si produce ovunque nello sesso modo. Si perde così l’occasione di definire sviluppi urbani “altri” che pongano in gioco idee di città differenti, scoperte magari attraverso i contributi che possono emergere da un processo inclusivo.

Cambia ogni volta la firma delle archistar di turno, cambia l’estetica, ma gli esiti alla fine sono gli stessi. Una trasformazione urbana affidata ad una archistar è poi antitetica all’idea di percorso partecipativo, perché l’archistar per sua natura lavora per affermare la propria personalità e depositare la propria opera sul territorio, spesso un monumento a se stesso. Non è un loro problema capire come ”l’antropologia del quotidiano” possa entrare nella definizione del progetto. Le archistar lavorano “nel” sociale e non “per” il sociale, come continua a ricordarci un importante uomo della cultura milanese, Ugo La Pietra, poco noto al pubblico, essendo egli stesso una figura “disequlibrante”, aggiungendo che bisognerebbe lavorare per fornire alla comunità gli strumenti per interpretare la realtà.

Se si volesse seguire una strada di maggior trasparenza si sarebbe potuto riprendere, adattandola al tema della visione urbana, l’esperienza che l'Istituto Nazionale di Urbanistica ha promosso in passato attraverso i concorsi di progettazione; qui la cittadinanza è stata chiamata a stabilire cosa doveva prevedere il bando di concorso e gli stessi cittadini erano poi presenti nella Commissione aggiudicatrice. Con queste premesse i progettisti si sarebbero potuti mettere a confronto con le richieste del territorio ed interpretarle in modo “contestuale e incrementale”.

Non mi sembra che per gli scali ferroviari si stia procedendo con queste preoccupazioni e che intanto si stia perdendo un’occasione formidabile per una trasformazione urbana in cui la città possa domani riconoscersi. Ci troveremo con interventi che una volta attuati nel tempo entreranno a far parte del panorama urbano e che verranno progressivamente assimilati dalla popolazione, con le stesse dinamiche di assimilazione culturale che ci vengono proposte dal mercato a furia di campagne pubblicitarie.

Mi pare di dover rilevare che FS Sistemi Urbani non ha nemmeno indicato a grandi linee a cosa deve rispondere il progettista e quali interventi di trasformazione prevedere, compito e responsabilità che spettano al committente e non certo al progettista.

Verissimo. Nella fase precedente e nell’Accordo di Programma discusso dalla giunta Pisapia, che ora si andrà a modificare, era chiaro cosa si doveva fare e l'amministrazione si era presa la responsabilità di dare ad ogni scalo una destinazione prevalente. Questo dato era stato la base dell’attività di ascolto attivata a Milano. Nella recente tre giorni abbiamo assistito ad un passo indietro, ad un vuoto in cui ogni scalo potrebbe diventare qualsiasi cosa, senza aver avuto la capacità di trasferire a chi stava seduto intorno al neanche le informazioni di base sulle opportunità di connessione con gli elementi di pregio del contesto; durante le fasi conclusive del è stato messo sul tavolo di lavoro un foglio bianco da riempire con le idee che venivano in mente ai presenti sull’assetto urbanistico di questo o quell’altro scalo, cosa che ha provocato dissensi e l’abbandono dal tavolo da parte dei più.

Direi che ci sono più ombre che luci sulla trasformazione degli Scali Ferroviari milanesi. E’ possibile e come si potrebbe recuperare una situazione che dal punto di vista dell’urbanista, dell’esperto in processi di partecipazione e anche del cittadino appare già compromessa? I cittadini attraverso i Municipi potrebbero far sentire la loro voce?

Penso che l’unica via possibile sia che l’amministrazione pubblica si assuma la responsabilità di intervenire per riprendere la regia di questa vicenda, collocando i portatori di interesse nella loro giusta posizione all’interno del dibattito; mi pare però che per evitare altri “inciampi” la politica abbia ricondotto la definizione dei contenuti dell’accordo di programma all’interno del solo Consiglio Comunale, garantendo a parole un ascolto della città. Come giudicare poi l’assenza da questa strategia di un posizionamento chiaro dei Municipi, il primo livello su cui organizzare la partecipazione che si dichiara di volere dalla popolazione?



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Re: Workshop Scali Ferroviari, un percorso aperto alla partecipazione? Ne parliamo con un esperto.
27/01/2017 davide fortini
Egregi MetroxMilano

Buongiorno. la citazione fa riferimento ad un articolo dal titolo "la partecipazione è una cosa seria" apparso su questa testata il 25 maggio 2016 reperibile nell'archivio notizie.

cordiali saluti


Re: Workshop Scali Ferroviari, un percorso aperto alla partecipazione? Ne parliamo con un esperto.
26/01/2017 MetroxMilano
Giusto per precisare, ma in quale occasione "i cittadini" si sarebbero rifiutati di partecipare ai workshop Metro4? Io ho preso parte a tutti gli incontri e non ho registrato la presenza di esponenti di ogni comitato più altre persone.


Re: Workshop Scali Ferroviari, un percorso aperto alla partecipazione? Ne parliamo con un esperto.
25/01/2017 Emanuele Breveglieri
Solo per dire: che bell'articolo! Chiaro, illuminante, pieno di spunti da condividere.


 
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