La trasformazione degli Scali FS milanesi. Una rinuncia alla democrazia?

Abbiamo intervistato Giancarlo Consonni, professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano. Insieme a numerosi altri colleghi urbanisti, architetti ed ecologisti ha firmato l’appello rivolto al Comune per protestare contro gli incarichi direttamente affidati a cinque studi di architettura per definire come dovrà avvenire la trasformazione degli scali FS a Milano. ()
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1.Professor Consonni cosa l’ha spinta a sottoscrivere questo appello?

Si sono travisati gli impegni assunti nella delibera del Consiglio Comunale che prevedeva un concorso pubblico: la procedura scelta esautora l’amministrazione pubblica e i cittadini dal governo del territorio e dei destini della città. Si sta ripetendo quello che è accaduto negli ultimi trent’anni per interventi di rilevanza cruciale in cui il progetto è stato redatto su incarico dell’operatore immobiliare proprietario delle aree (da Bicocca, che ha fatto da apripista, alle altre grandi aree dismesse: Innocenti, Om, Porta Vittoria, Montedison-Rogoredo, fino a Porta Nuova e Citylife). Il bilancio è sotto gli occhi di tutti: seguendo questa prassi, si sono via via perse straordinarie occasioni per migliorare la qualità urbana.

In tutti questi casi il Comune non ha mai espresso una linea strategica, un’idea di città. Emerge un limite culturale di fondo, oltre che politico (le due cose sono strettamente collegate).

La storia si ripete ora con una mistificazione in più. Se nel caso di CityLife il problema era che l’ente Fiera doveva trovare le risorse per il trasferimento a Rho-Pero, qui FS-Sistemi Urbani maschera la politica immobiliarista con l’esigenza di dover reperire risorse per un nuovo passante ferroviario o altri interventi sulla rete regionale dei trasporti su ferro. Non vi è dubbio che occorra rivedere la politica del trasporto pubblico in Lombardia con particolare attenzione agli spostamenti pendolari; ma che, per conseguire dei miglioramenti su questo fronte, si debbano reperire risorse dalla speculazione immobiliare su aree sostanzialmente pubbliche, è un modo di procedere assurdo.


2. In Italia da tempo assistiamo a continue deroghe delle norme che impongono di bandire concorsi pubblici, una pratica che non trova spazio in Francia, in Germania e in altri paesi europei. Così facendo si nega in effetti un principio di democrazia e di trasparenza. Ne conviene?

Certamente. Fare un concorso pubblico vuol dire redigere un bando; operazione che comporta non solo la definizione degli indici di edificabilità, certo importanti, ma soprattutto la messa a fuoco degli obiettivi strategici: tutte scelte che non possono essere delegate al proprietario delle aree e agli investitori. Il bando serve a definire le finalità sociali della trasformazione. Sul terreno degli obiettivi strategici si registra una grave lacuna nelle politiche del Comune di Milano, come della gran parte dei comuni italiani, del tutto impreparati e disattenti sulla questione del rilancio della qualità urbana degli insediamenti e delle relazioni. Qui è il punto. La democrazia non si misura solo sui modi di formazione delle decisioni ma sugli esiti delle trasformazioni: nel loro rispondere o meno alla necessità di assicurare le migliori condizioni materiali della convivenza civile. Un terreno, questo, su cui l’Italia, che pure è stata maestra nell’arte di costruire città, mostra da tempo una grave carenza a confronto con l’Europa più avanzata.

Nel Bel Paese le politiche di governo del territorio manifestano il totale disinteresse circa le ricadute degli interventi urbanistici sul medio-lungo periodo. Dall’agenda politica sono completamente uscite questioni relative ai modi dell’abitare e ai modi di strutturarsi delle relazioni. Una carenza vistosa che ha radici profonde in un analfabetismo diffuso sul tema del fare città. Si spiegano così trasformazioni urbanistiche e architettoniche che nulla hanno a che vedere con modalità inscrivibili nelle politiche di Rinascimento urbano perseguite altrove (penso in particolare a Barcellona). Basta una visita a CityLife: due grattacieli (un terzo previsto non è stato realizzato) in un deserto di relazioni, una spianata pavimentata su cui si affacciano anche due raggruppamenti insediativi di residenze di lusso, nei quali è incamerato la parte preponderante del verde pubblico previsto per l’intero intervento. Si respira un’aria da gated communitiesche non va certo in direzione della convivenza civile.

A cavallo del 1900 Edmondo De Amicis ci ha restituito una Torino in cui, in certe zone della città borghese, artigiani, operai e impiegati convivevano nella stessa casa, o nello stesso isolato, con i più abbienti (un principio che valeva anche per Milano e le altre città italiane). Oggi si va decisamente in direzione opposta: si assiste al dilagare di forme esasperate di segregazione sociale, favorite da zonizzazioni selettive e da tipologie insediative concepite secondo logiche sempre più esclusive. Gli ultimi sviluppi sono all’insegna di un ritrarsi delle residenze dei più facoltosi in nuovi ‘castelli’, edifici alti su palafitte con i piani terra non più abitati. In altri termini per questi ceti si predispongono modalità abitative ossessionate dal problema della sicurezza, diffidenti e difese dalle relazioni con l’intorno. Si fa avanti un vivere asserragliato in torri in cui sembrano riaffacciarsi le città puntaspilli del Medioevo. Che cos’altro è il celebratissimo “bosco verticale”? Un caso, questo, nient’affatto isolato. Già prima, Renzo Piano per le aree ex Falck a Sesto San Giovanni ha proposto una sequela di grattacieli su pilotis alti 15 metri e i primi tre piani non abitati, in mezzo a un verde genericamente definito. Un modo di abitare egoistico, che è l’opposto della città. La città è condivisione, nella tutela e nel rispetto reciproco.

Negli ex scali ferroviari si deve dare spazio al verde? D’accordo, ma è sul come che va portata l’attenzione. Se il verde (anche qui imprecisato) ha come prezzo un bordo di grattacieli di residenze di lusso – tanti “boschi verticali” come suggerisce un rendering recentemente ‘regalato’ da Stefano Boeri al «Corriere della Sera»– è già delineato uno scenario preoccupante. Da cancro antiurbano.

Stiamo mimando in modo ridicolo Central Park e i suoi grattacieli in una città come Milano che non ha questi principi nella sua logica costitutiva e nella quale, per fortuna, le relazioni socializzanti sono ancora un fatto primario. Del resto, solo nel continuo connettere presenze e ritrovare punti di convivenza civile si può pensare di salvaguardare processi in cui la cura della democrazia e la costruzione della città vanno di pari passo.

Ci sono poi le quantità e su questo si sta mistificando. Sergio Brenna ha fatto dei calcoli precisi: non ha senso partire dall'ipotesi del verde al 50% con indici volumetrici elevati: poiché nell’insieme del progetto devono rientrare le dotazioni di servizi e spazi verdi, non si può pensare che ci siano logiche compensative per cui il verde e i servizi di interesse generale si possano realizzare altrove: devono essere contestuali. Lo dico per esperienza: se si va oltre l’indice di 0,50 mq su mq (superficie lorda di pavimento su superficie fondiaria), non si potrà mai far tornare i conti: si dovrà forzare il gioco con le tipologie edilizie (vedi il rendering di cui sopra) e una dotazione inadeguata di servizi urbani e territoriali.


3. Spesso si giustificano queste scelte con le esigenze economiche, occorre recuperare risorse sfruttando i processi di riconversione di aree pubbliche perché i soldi non ci sono e dobbiamo contenere il debito pubblico. È questa una vera soluzione?

È una questione centrale. Il Comune, per quello che si è visto negli ultimi decenni, mira unicamente a incamerare oneri di urbanizzazione. Risorse che, dopo la riforma Bassanini, possono venire utilizzate per coprire qualsiasi spesa o buco di bilancio, quando invece, come era nella legge originaria, dovrebbero servire a realizzare i servizi complementari che rendono l’abitato equilibrato. Mentre dimostra disinteresse sulla questione centrale del fare città, l’amministrazione comunale ambrosiana punta a favorire qualsiasi realizzazione purché il flusso degli oneri di urbanizzazione, destinati ormai per il 30-40 % alla spesa corrente, non si interrompa.

In altri termini, vendiamo il futuro per far fronte ai bisogni quotidiani (compresi il mantenimento di una macchina burocratica farraginosa).

L’assenza di visione strategica, e di pratiche conseguenti, mette evidenza in cosa consista l’attuale crisi della democrazia:. Non si può monetizzare la perdita di qualità degli aggregati insediativi e accettare l’aumento di segregazione urbana pur di assecondare operatori immobiliari che, per conseguire il massimo sul piano della rendita, si rivolgono a una sola fascia di mercato, con prezzi ormai superiori ai 10.000 euro/mq.

Il verde, poi – ce lo insegnano le migliori esperienze europee (Parigi, Barcellona ecc.) –, svolge pienamente il suo ruolo se è abitato, se è frequentato intensamente dalla collettività. Perché questo accada, si deve predisporre un’offerta oculata di opportunità. Il parco urbano non può essere un generico spazio rinaturalizzato: deve essere frequentato, presidiato in modi d’uso in cui la contemplazione degli elementi naturali e la cultura devono andare di pari passo.


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