Gabo e il padrino

In memoria di Gabriel Garcia Marquez un racconto autobiografico di  due figure che, a loro insaputa, hanno influenzato la mia vita
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Dovevano capire quello che sarebbe stato il suo futuro già dalla sua nascita: la sua irruenza e voglia di vivere si materializzò nel fatto che nacque in ascensore mentre recavano la madre alla sala parto.
Sarebbe un incipit tipico di un romanzo di Garcia Marquéz ed invece è proprio quanto accadde a me nel dicembre 1957.
Mio padre, dopo aver portato mia madre in una clinica di via Marcona, incredulo, trovò ad attenderlo alla sommità delle scale una ridente infermiera che gli porgeva un fagottino che mi conteneva. Stava salendo le scale con la signora Marisa, un'amica di famiglia, che gli stava raccontando del fatto che uno dei suoi figli era in viaggio con una Lambretta in India, così mio padre decise di darmi il suo nome: Paolo.
Nel 1969 gli chiesero di farmi da padrino alla Cresima e lui, al posto di farmi i soliti regali (penne d'argento, orologi, cornici o album delle foto con incisioni in argento), rendendosi conto di non avermi comprato nulla, raccolse all'ultimo momento dal comodino il libro che aveva appena finito di leggere e, senza neanche impacchettarmelo, me lo regalò: era la prima edizione di Cent'anni di solitudine. Certo per un undicenne era un libro non proprio semplice da leggere, ma era tale la mia attrazione per quell'uomo che decisi comunque di affrontarlo ed il fatto mi influenzò per tutta la vita, tant'è che gli sono ancora grato per quel regalo. Da quel regalo nasce il mio amore per la letteratura sudamericana che mi condusse una decina di volte a visitare i paesi del Sud America.
Qualche anno dopo (1973), il mio amore per la letteratura sudamericana fece un notevole salto in avanti quando rubai (allora le poche lire che ricevevo come mancia settimanale, andavano in vizi consumati al parco Lambro) il cofanetto della Feltrinelli contenente 5 tra i libri più importanti della mia vita: appunto "Cent'anni di solitudine", "Rulli di tamburo per Rancas" (Manuel Scorza), "La città e i cani" (Vargas Llosa), "Il bacio della donna ragno" (Manuel Puig) e, soprattutto, "Gran Sertao" (Guimarraes Rosa). Non so quanti di voi abbiano letto tutti questi libri ma provate ad immedesimarvi nella testa di un quindicenne ribelle, che aveva come riferimento culturale le White Panthers di John Sinclair e faceva parte della redazione di Re Nudo, e a quanto le storie di recinti che si muovono come esseri viventi o i film raccontati da un gay in un carcere argentino o la storia di un ragazzo in un collegio militare peruano o, ancora di più, la storia di cangaceiros brasiliani in una brulla terra pregna di violenza, abbiano potuto popolare i suoi sogni ed i suoi orizzonti. Sono racconti che grazie alla loro natura favolistica ti facevano però entrare in un universo molto crudo, violento e pieno di sopraffazioni. Tutta materia buona per creare le basi anche per un'evoluzione politica che si realizzò in quegli anni.
Il mio padrino lavorava, dopo essersi laureato in Fisica, come ricercatore e divenne per me un inconsapevole punto di riferimento, tant'è che alla fine del liceo decisi di iscrivermi a Fisica per cercare di intraprendere quella carriera, cosa che non accadde, ma, si sa, la vita ha strade ben diverse dai sogni.
Una volta lasciata fisica per il DAMS e potendomi permettere un viaggio grazie al mio lavoro da Free Lance quale programmatore, nel 1980 decisi di concretizzare i miei sogni partendo, zaino in spalla, per il Sud America. Fu un viaggio iniziatico fondamentale che mi vide attraversare due volte l'intero Sud America dal Perù, passando da una Bolivia in piena guerra civile a seguito di un golpe militare, per arrivare in Brasile da cui ritornai in Perù navigando per settimane sul Rio delle Amazzoni.
Vidi quei paesaggi andini che intravedevo nei racconti di Manuel Scorza, una Lima poverissima governata da quei militari cresciuti nei collegi descritti così bene da "La città e i cani" (tant'è che decretarono per quel libro il rogo)  e quei panorami brulli, violenti e poverissimi dell'interno brasiliano raccontati magistralmente da Rosa.
Il mio padrino l'ho intravisto poi sfuggevolmente poche altre volte, ma, ciò nonostante, rimane senz'altro, assieme a Gabriel Garcia Marquez, una delle figure più influenti della mia vita. Non riesco a piangere per la morte di Gabo perché io lo so che vivrà per sempre nei suoi immensi racconti e continuerà ad influenzare generazioni e generazioni così com'è accaduto a me.
A loro va il mio imperituro ringraziamento.


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