Isole nel vento 2

Ramadan ne kan!
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Spiaggia trop
Potrei baciarla. Il suo volto è così vicino che se allungassi una mano sentirei sulle dita la freschezza, o il calore, della sua pelle di seta. Ma se ti bacio tuo padre non solo la barca non me la da ma mi ammazza. Oh Shanin, Shanin come brillava nei tuoi occhi neri la luce divina! Più di tutto il plancton di questo mondo, più di tutte le stelle. Che pelle meravigliosa devi avere, Shanin. Ma sei solo una bambina, potrò mai accarezzarti? Oh, se ti vorrei accarezzare, bambina di luce. Ma se vuoi resterò qui per sempre con te. Ti aspetterò, sarò il tuo sposo, se mi vorrai. Ti farò una capanna bellissima, proprio sul mare. Imparerò, vedrai. Scaverò un pozzo per l’aqua e pescherò per te i coralli più belli. Anzi, ne ho portato qualcuno da Torre del Greco, di quelli rossi, che voi non avete. Una collana bellissima, sai, lunghi orecchini e due braccialetti. Non li ho pescati, e nemmeno scelti per te, Li ho solo comprati e mi servivano per… ma prendili, sono tuoi se ti piacciono. Ti avvicini Shanin? Mi dai le tue labbra? Co co co cosa vuoi Shanin, io non posso… Co co co come faccio poi con tuo pa pa pa…

Una mano mi parte co co come volesse abbracciarla… ma è una gallina! L’ho toccata e lei si allontana, facendo ancora co co co ma senza troppo rumore, nessuno schiamazzo. Si rimette a becchettare tranquilla attorno al mio zaino e al fucile senza più prestarmi attenzione.  Ti pareva, era un sogno, uno stradannatissimo sogno. La luce filtra dalle pareti, anch’esse di foglie di palma intrecciate. Qui tutto è fatto di foglie di palma intrecciate. “Ti né, mihun?” dice la voce di Nazimu. Anche lui mi chiede chi sono?  È entrato, si è accovacciato vicino a me, stretto nel suo sarong, e mi guarda.  No, ora capisco che cosa significano quelle parole, perché me le traduce: how do you feel mi dice con aria preoccupata. Lo sa un po’ di inglese Nazimu. L’ha imparato da quando costruisce i suoi dhoni per i giapponesi. Ma a me ieri era sembrato proprio che suo padre il Catìbu mi avesse chiesto con occhi indagatori: chi sei?  Proprio la domanda a cui non avrei saputo cosa rispondere. Ma che piacere vederlo, adesso, questo ragazzo bruno e snello, con quell’aria di guardare sempre lontano. Sono felice che sia mio amico. Però ora che mi vede aprire gli occhi, ciondolare la testa e fissare stranito la sua gallina, il volto gli si riempie di un sorriso ironico come se volesse dirmi qualcosa che se fosse in italiano sarebbe: “ma se non hai il fisico non era meglio rimanere a casa tua?” E come darti torto, Nazimu. Però ora sto bene, non proprio del tutto ma sto bene. Almeno credo. E poi sono qui, a Kudafari, Maldive. L’atollo di Male con i suoi villaggi vacanze pieni di turisti ricchi e cazzoni è duecento miglia più in giù. Giù, molto più giù. E quelli, giù a mangiare aragoste portate da chissà dove, giù a bere long drink gelati colle chiappe a mollo mentre le ultime barriere coralline vengono distrutte per farne materiale da costruzione. Io invece sono arrivato quassù e oggi farò vedere al Catìbu il mio lasciapassare per il Nord. L’ho ottenuto miracolosamente questo permesso, senza neppure aver capito cosa avesse convinto le autorità a rilasciarmelo così facilmente. Non ho neppure dovuto pagare, se non i bolli e i diritti normali. Sarà stato Nazimu. Già, non è lui il figlio del Catìbu di Kudafari? Abbiamo avuto un feeling immediato noi due. E ora posso viaggiare anche fino a Tiladhunmati, se riesco, che è come dire fino ai confini del mondo. Troverò il modo di sdebitarmi. Ora però viene il difficile: convincerli a darmi una barca e due marinai. Ho buone speranze che Darien e Madù accettino di accompagnarmi, perché non hanno bambini. Darien è da poco vedovo dell'ultima moglie e Madù ancora non si è deciso a sposarsi. Me l’ha detto Nazimu quando gli ho confidato il mio progetto. Ma suo padre, il severo Alem, che ne penserà? Darà il suo permesso? Ora non viaggia nessuno, perché c’è il Ramadan e le loro attività sono ferme. Ma è proprio questo il momento, l’unico momento dell’anno in cui qui alle Maldive è possibile ottenere una barca e dei marinai.

Ho una fame tremenda. Ma il sole è già alto e oggi è il primo giorno. Ramadan! Boia, proprio oggi. E adesso cosa faccio? Io naturalmente non sono obbligato a digiunare, perché sono straniero e non sono musulmano. Ma questa gente fino al tramonto non mangerà, né berrà, né fumerà. E i più devoti sputeranno nella sabbia tutto il giorno, perché nulla deve entrare nel corpo del credente finché il sole tramonta. No, decisamente non posso e non voglio essere l’unico. Fossi riuscito almeno ad abbuffarmi ieri notte. Tutti l’avranno fatto. Tutti meno lo straniero deboluccio e imbranato infilatosi chissà come e perché in mezzo a loro. Ma ora già qualcuno va in giro per il villaggio a gridare: “Ramadan ne kan, Ramaadan ne kaaan” Anche qui si sente dappertutto quel grido, senza bisogno degli altoparlanti che flagellano con lo stesso grido, seppure articolato secondo la fonetica di altre lingue e di altri riti, tutte le città mussulmane, Male compresa. Facile la traduzione: Ramadan? non si mangia! Nazimu ha capito cosa sto pensando. Sogghigna e mi guarda con una certa sufficienza, il vigliacco. Non so se si erano messi d’accordo, ma proprio in questo momento entra Shanin con un vassoio pieno di ogni bene di dio. “Shanin, datta.”  Datta, sorella. Mi presenta sua sorella. Accidenti.
 
Lei esita ad avvicinarsi e io le sorrido con l’espressione di vivida intelligenza che potrebbe avere una barbabietola appena bollita. Dannazione a te Nazimu!
“Ramadan ne kan! Non lo sai, brutto figlio di buona donna?” quasi gli urlo, mescolando le due lingue con intento tutt’altro che conciliante. Intanto però non riesco a evitare di guardare incantato il vassoio. E anche Shanin guardo, che per appoggiarmelo vicino si china rivelandomi tutta la bellezza fulgente dei suoi piccoli seni ambrati. 
“Kan Marco, kan. Cale ne muslim.”
E’ serio adesso, non mi sfotte, Nazimu. Allora devo avere un aspetto preoccupante. Anche Shanin infati sembra mi guardi come una crocerossina guarderebbe un moribondo. 
“Are ne kan, porcaccia puttana, ne kan!” non mangio, ripeto ostinato, poliglotta e scurrile. Forse hanno capito che non mollerò. Infatti si guardano, si scambiano parole sottovoce, che non capisco, e mi fanno entrambi un segno che vuol dire: non ti muovere, aspetta! Shanin si riprende il vassoio. E la mia colazione svanisce con loro.
 
Torno a distendermi, effettivamente mi sento piuttosto debole. Mi tocco anche la fronte. Fa già caldo ma per fortuna non mi sembra proprio di avere la febbre. Dai che non sto malaccio, ho solo fame. Mi tiro su, mi do una rinfrescata coll’acqua del catino e mi sento già meglio. Rovisto nello zaino, trovo il mio necessaire, mi lavo anche i denti e butto l’acqua di fuori, sciaff! nella sabbia. Non avrei voglia di incontrare il Catìbu, adesso. Per fortuna non vedo nessuno. Mi hanno detto di aspettare e io aspetto. Dopo più di mezz’ora Nazimu e sua sorella ritornano. “Asbala, àsbala, àreme dàtturu” , mi dice lui. Vieni, dobbiamo navigare. Porta su una spalla una specie di grossa bisaccia. Si guarda attorno furtivo, lancia un’occhiata alla sorella e mi prende per mano. Mi portano alla spiaggia chiacchierando tra loro come se niente fosse, lei due passi dietro a noi due. C’è poca gente in giro, diciamo nessuno. Staranno riprendendosi dal baccanale di ieri notte, belli stravaccati all’ombra delle loro capanne. Alla spiaggia è pronta una piccola barca appena tirata a secco, di prua. Mi fanno salire, Nazimu la spinge e ci salta su appena dopo Shanin, che si è cambiata e ora indossa calzoni di tela nera sotto il ginocchio, piuttosto larghi, e una maglietta di semplice cotone bianco. Vorrebbe remare lei, ma prendo io il remo, mi sistemo e ci do dentro. Io a prua e Nazimu a poppa. Pochi colpi e appena al largo alziamo la vela. Usciamo dal reef con un buon vento fresco al traverso, in mare aperto. “Balala, tibeni ra!” Ra, isola.  Mi indicano infatti un’isola, a circa due miglia verso ponente. Guardo entrambi con aria interrogativa. “Where are we going?” provo a dire. “Cale enghé, àreme can.” mi risponde il mio amico con tono di sfida. “In that island we can eat! That is my muslim-free island” Un’isola senza  mussulmani dove potremo mangiare liberamente! Shanin ride, non credo parli inglese, lei. Ma è davvero bellissima. La osservo mentre sfiora il mare con la sua mano sottile, come se stesse accarezzando una creatura viva. La vedo anche piegare il collo verso l’acqua azzurra, come in un gesto d’affetto. E mentre la osservo sento che vorrei essere io quel mare, io quell’acqua, io vivente per lei come quell’immensa distesa, per sentire la sua carezza sulla mia pelle ardente di sole. Ma il vento fresco ci spinge. In poco tempo il tratto è percorso e il passaggio del reef ci svela le acque interne dell’isola, più chiare e luminose di quelle dei sogni. E’ giorno fatto. Fitte palme quasi sull’acqua. Sabbia bianchissima di finissima polvere corallina. Leggera brezza di poppa, sventiamo il fiocco, tenue sbattere come ali di uccello, caliamo la vela grande e la prua tocca delicatamente la riva. A terra Shanin subito si dà da fare per raccogliere pezzi di legno e accendere un fuoco all’ombra di un gruppo di palme. Da sotto un riparo di foglie intrecciate estrae una caldana di ferro, una pentolina e altri attrezzi. Nazimu apre la cesta. “Cale rattehì!” esclamo. Tu amico. Diavolo di un amico! Tira fuori un sacchetto di tè, e frutti che non conosco, e pesci, e tre palle di farina già impastata. Mi hanno portato fin qui per farmi mangiare senza che nessuno ci veda! Shanin in pochi minuti fa bollire l’acqua e pone a scaldare una piccola piastra di ferro. Dalle pallottole di farina ottiene abilmente i piccoli dischi per fare il chapati e dispone i pesci su una foglia di palma, in attesa di cucinarli. La prego di non usare olio di cocco (ne teo cascì, ne teo cascì, per favore!) e lei ridendo mi dice di sì. Nazimu si lega uno straccio alle caviglie e in pochi istanti si arrampica su una palma, raggiunge le noci, ne fa precipitare al suolo qualcuna e ridiscende. Ne apre una col suo coltello e me la offre. Io la passo a Shanin che la prende con un sorriso. Non fai che sorridere, ragazzina di luce! Lui ne apre altre due. Beviamo. Perchè mi sembrano così buone adesso?
“Càreme ne ramadan, Nazimu?” butto lì, senza cattive intenzioni.
“We are not muslims” mi risponde con tono appassionato, come non glielo avevo mai sentito. “Muslims saccarà. Muslims came and took our country, in the sixteen century. They imposed their religion. This is not good country for to be muslim. We have sun, we have sea, and fish and woderfull women! They must go in  –mi indica prima sua sorella e poi la piccola splendida laguna protetta dal reef davanti a noi- all dressed, completely, always. Under the sunshine!” I pesci sul fuoco, cuocendo solo nella loro sostanza, cominciano a spargere nell’aria un profumino delizioso. Nazimu mi sorprende ancora, anzi mi lascia proprio di stucco: tira fuori dalla bisaccia un chilum di gesso, lo carica scaldando un pezzo di hascisc mescolato a poco tabacco. L’ha preso alle Laccadive, mi dice mentre lo prepara, che sono India. Da non crederci. È stato anche alle Laccadive Nazimu, dove vorrei andare anch’io, ed è una specie di freak, un freak maldivano! Boia cancher, il ’68 è passato da un pezzo ma forse Times are ‘a changin, anche qui, alle Maldive! Fumiamo. Qualche buon tiro profondo, con le mani a conchiglia. Ma lui non passa il chilum a Shanin. “She’s fifteen, too young!” dice. Non credo sia solo per quello, ma non faccio obiezioni. Certo non ora, non qui. E poi un poco ha ragione, credo. Mi viene da ridere. Sarà per il chilum, sarà perché mi vien da pensare a certe femministe nostrane, sarà perché nel profumo del pesce alla brace si insinua un odor di bruciato e Nazimu lo fiuta con disapprovazione. Ma più semplicemente è perché mi sento in paradiso. Ridiamo tutti e tre. A crepapelle. Shanin toglie i pesci dal fuoco. Mangiamo qualcosa ridendo. Ci rubiamo dalle mani pezzetti di pesce arrostito. Shanin si mette a imboccarci come fossimo foche. Allora mi viene di imitarla, una foca. Loro ridono ridono, ma mi guardano strano. I am a seal, a seal! grido io. Sapranno cosa sono le foche? Improvvisamente Nazimu salta in piedi e si mette a correre sulla spiaggia, fa salti, capriole. Cammina sulle mani e cade di schiena. “Asbala, Marco, àsbala Shanin!” Si spoglia, si tuffa nell’acqua trasparente, ci invita. Shanin si toglie i vestiti e lo segue! Entrambi adesso sono coperti solo da una piccola striscia di tela stretta sui fianchi. Questo è troppo, mi dico. Ma l’idiozia del pensiero mi fa così vergognare che ne arrossisco. Anch’io mi spoglio restando in costume e mi butto in quest’acqua divina, di quest’isola divina su questo pianeta divino.
 
Nuotiamo, lei non va molto lontano, si limita a immergersi per brevi tratti e mentre nuota lievemente sul fondo la sua immagine si scompone in frammenti di luce. Ma noi due ci sfidiamo a chi arriva primo al reef e ritorno. Non è molto e Shanin, ridendo felice, ci da il via battendo le mani sopra la testa. Ora che devo battermi con Nazimu quasi non bado ai suoi piccoli seni perfetti. Non nuotano male i maldivani e certamente sott’acqua non li vince nessuno. Però a crowl… grandi bracciate, ma tecnica scarsa. Il traguardo è tornare e toccare Shanin e io di poco ma arrivo per primo. Lui si arrabbia moltissimo. Dice che ho barato, che non ho toccato, credo, che sono tornato indietro prima del tempo e chiede a Shanin: “cacu, cacu?” Lei tende il braccio verso di me e gli dice ridendo “Enà! Cale saccarà!”  Lui la guarda rabbioso, come l’avesse tradito, ma subito torna a sorridere. Osserva il mare, sembra ascoltare il rumore del vento e:
“Areme dani, Marco, we must go” mi dice allegro. Così presto? 
“Va rangalo, areme dani” conferma Shanin. Il vento, va, ora è buono e devono andare. Ma io vorrei restare ancora. Ci resterei tutta la vita, qui con loro, e non è detto che non lo faccia davvero.
“Cale unnani” mi dice lui ancora, puoi restare “Nidanì” dormi, riposa. “Aharem ghene Shanin. Aharem annana” . Intanto lui riporta a casa Shanin. E poi torna.
Io la guardo mentre si riveste cercando di imitare il modo come la guarda lui, come la guarderebbe un fratello. Ridicolo, l'effetto è esattamente il contrario. Lei continua semplicemente a sorridere, ma preferisco, anzi devo, proprio devo allontanarmi. Assolutamente. Mi ributto in mare e do qualche bracciata, mentre loro stupiti mi osservano. Sì, va bene, portala via per carità, ma tu torna presto che peschiamo assieme. Com’è facile capirsi. “Can you bring me my gun, Nazimu? I should like go fishing with you !” gli dico dall'acqua, accompagnando tutto con gesti. Mi sorride. Ho sempre sognato di avere un amico così. Ho sempre sognato tutto questo. E adesso ci sono. Quando mio sembra di esser tornato tranquillo esco dall’acqua. Anche lui torna serio.
“Ok, aharem annana.” mi dice  “Then we go fishing. But you carefull! Wait for me.” Can be some shark over there.”
Squali, ci possono essere squali? Mi indica l’entrata e il mare al di là della barriera corallina.
“They dont enter the atoll, usually. They are not so dangerous, usually. They eat very well at Maldives Islands. There is a lot of fish here, you know, they are not hungry, usually. But you be carefull, dont swim alone. Understand?”
Gli dico di sì, che ho capito, ho caapito, understand, understand, finche non si tranquillizza.
 
Con un sorriso di intesa mi lascia il chilum dopo averlo caricato di nuovo. Mi da ancora qualche raccomandazione. Dalla canoa prende una maschera e me la porge. Non so se ho capito tutto. Ma una cosa sì l’ho capita: guai a uscire dall’atollo, guai oltrepassare il reef. Anche Shanin mi dice qualcosa. Mi sorride ancora. Rimettiamo in acqua la barca. Io spingo. Se ne vanno. Lei a prua dà qualche colpo di remo. Mentre Nazimu alza la vela si gira e mi saluta agitando una mano. La piccola barca sembra affondare nelle onde, seppure non grandi, vicino all’imboccatura. Stanno uscendo dal reef. Al largo la brezza è più tesa. Resto lì immobile, inebriato rapito, completamente stonato, il braccio in alto per rispondere al loro saluto. Ma loro non mi salutano più. Però voglio credere che lei ancora alzi la mano e mi lanci uno sguardo. Resto da solo.

(forse continua, chissà)

Adalberto Belfiore

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