Il lacchè e la puttana

Il racconto di Nina Berberova è la proposta di lettura per il mese di dicembre per il ciclo “Racconti al femminile”. ()
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Hieronymus Bosch, in quello che è uno dei suoi capolavori “Il giardino delle delizie”, raffigura, tra le tante scene che egli vi rappresenta, quella di una coppia di amanti all'interno di una sfera di cristallo. Bosch, con tale immagine, aveva inteso illustrare il detto: “Il piacere è fragile come il vetro”. C'è, ci avverte Bosch, nel fare del perseguimento e della ricerca del piacere il fine ultimo - tanto da vivere rinchiusi in quella sfera di cristallo - un pericolo e un rischio, perchè la natura del piacere è aleatoria, destinato come esso è ad esaurirsi facilmente, avendo bisogno di essere continuamente alimentato e rinnovato e perciò la conseguenza è di ritrovarsi totalmente smarriti e indifesi nel momento in cui si scopre che quel piacere, fino a un certo punto vissuto, si esaurisce, diventando via via sempre più irraggiungibile.
Ed è proprio dentro queste dinamiche che si svolge la storia di Tanja, la protagonista de “Il lacché e la puttana”, che distruggerà se stessa e la sua vita rincorrendo ciecamente e, via via, per lei, sempre più miseramente, l'illusione di poter realizzare una vita finalizzata a quell'unico scopo: “...perché vive la gente? Per il piacere. Si, è così. La gente vive per il piacere”. Sarà infatti in base a questa convinzione che Tanja fonderà la sua esistenza. Non c'è alcun talento, capacità, competenza che Tanja metterà in gioco per raggiungere quel suo obiettivo. Ella metterà in gioco solo se stessa, in una totale autoaffermazione di sé e, soprattutto, della sua vanità. Ma sarà proprio questa la sua condanna, perché finirà ostaggio di quel meccanismo, diventando vittima di quella sua vanità e di se stessa. Tanja vivrà infatti nell'illusione di “risolvere” la vita attraverso la conquista di un uomo che le consenta di vivere in un “benessere” permanente e che le assicuri agiatezza e felicità.
Ma gli uomini che Tanja incontrerà non le daranno ciò. O perché si romperà irrimediabilmente la “sfera di cristallo” nella quale Tanja si era illusa di poter vivere insieme al primo uomo della sua vita, che sarà lui per primo a non reggere all' illusione di riuscire a vivere in quella dimensione. O perché i successivi uomini la “useranno” per i loro scopi, sfruttando la condizione di dipendenza e di ricattabilità in cui Tanja si verrà trovare nei loro confronti. O perché, come nel caso de “Il lacché” del titolo - con cui si concluderà tragicamente la parabola di Tanja -, non avranno alcuna risorsa né materiale, né esistenziale da poterle offrire tale da elevarla alla condizione a cui ella aspira. Tanja è quindi “la puttana” del titolo, non perché svolgerà in modo organico e sistematico quella “professione”, ma perché ne riprodurrà la logica, nella misura in cui sottometterà la sua vita a quello scambio che ella ricerca, offrendo se stessa in cambio di quell'”ozio” dorato che la sazi, nell'auspicio che quella vita da “mantenuta” possa sfociare in una sua forma stabile ed esclusiva.
Con “Il lacché e la puttana” (1937) la Berberova ci dà un'altra delle sue prove di piccola/grande letteratura. Piccola nella forma e grande nei contenuti. In quanto la misura del racconto e lo stile stringato e conciso, persino lapidario, fanno anche de “Il lacché e la puttana” un esempio di come la Berberova sia riuscita con un'estrema economia di mezzi a rendere temi e atmosfere e a plasmare personaggi e situazioni di grande forza ed intensità espressiva. Avendo questo racconto in comune con altri suoi racconti un sottostante che li accomuna che è quello della ricerca della felicità, la quale si rivela impossibile da realizzare, facendo, della Berberova, una cantrice di quel disincanto e di quella disillusione propri di tanta letteratura russa.
Ma nella Berberova lo scarto tra ricerca della felicità e sua irrealizzabilità si inscrive all'interno di una tematica che le è peculiare e cioè quella dello sradicamento. E' noto che tutta l'opera della Berberova prende le mosse e si sviluppa a partire dall'esperienza dell'espatrio/esilio di cui lei per prima fu partecipe, avendo lasciato la Russia dopo lo scoppio della rivoluzione per emigrare prima a Berlino e poi a Parigi dove si stabilirà nel 1925. La condizione di “emigrato” diventerà per la Berberova un elemento identitario che segnerà esistenzialmente e materialmente la sua vita e sfocerà nella sua opera, facendo ella, del mondo e della vita degli emigrati russi a Parigi, lo sfondo, l'ambientazione e il contesto di tanti dei suoi racconti, così come avviene anche ne “Il lacché e la puttana”. Che è ambientato a Parigi ed ha nei due protagonisti due “tipici” emigrati russi, in quanto anch'essi fuggiti dalla Russia dopo la rivoluzione. E, attraverso di essi, la Berberova ci parla di esistenze che finiscono per ritrovarsi ai margini della vita, di fatto in una condizione di alienazione/spaesamento, schiacciati come essi sono sul presente, in quanto privi del loro passato dal quale si sono staccati in modo lacerante e privi anche di futuro che è inseguito e perseguito ma che, a contatto con la realtà, sfugge e svanisce avvitandosi in una spirale che, per paradosso, finisce per essere proprio priva di futuro.
L'aspirazione alla felicità, come nel caso del personaggio di Tanja, è quindi irrealistica e stridente quando le condizioni in cui la si vuole soddisfare sono gravide di incognite e di limitazioni. Un'idea di felicità le cui coordinate in termini di realizzabilità sfuggono allo stesso soggetto che ne è portatore, come Tanja stessa rivela in procinto di partire per Parigi, quando, con Aleksej, il suo primo uomo nonché primo e unico marito, decidono di trasferirvisi. Tuttavia, fino a quel momento della sua vita, Tanja una sua felicità l'aveva assaporata potendo vantare con se stessa la conquista di Aleksej che aveva letteralmente “rubato” alla sorella e che le aveva consentito di mettere alla prova e affermare la sua vanità. Ma Tanja - in quel momento della sua vita - non era già più in Russia. Lei, la sorella e il padre erano in Giappone dove erano fuggiti per sfuggire ai bolscevichi. Il padre era infatti un funzionario zarista di alto livello e Tanja era cresciuta nell'agiatezza senza rinunce e senza obblighi, e ora la conquista di Aleksej, conosciuto lì in Giappone, ed anch'egli in grado di garantirgli agiatezza gliela confermava. Ma allo sradicamento determinato da quella fuga in Giappone Tanja aggiungerà anche uno sradicamento affettivo nei confronti del suo ambito familiare, abbandonando il padre e la sorella al loro destino, in quanto ormai per lei estranei al suo mondo interiore e alle sue aspirazioni.
Sradicata dalle sue “origini” e sradicatasi dai suoi legami familiari Tanja si llude di poter vivere in quella sua “sfera di cristallo”, con Aleksej Ivanovic, avulsa dal mondo. Anestetizzando la sofferenza e il dolore in modo di lasciarseli sistematicamente alle spalle proiettata solo e sempre sul futuro implicitamente per lei foriero di felicità. E così dopo nove anni trascorsi a Shangai a “...Tanja venne voglia di andare a Parigi” e Aleksej che “...desiderava sempre quello che lei desiderava” lasciò il suo impiego per assecondare quel desiderio. Ma le cose a Parigi presero da subito una brutta piega: “...dopo quattro mesi Aleksej Ivanovic cominciò ad avere delle crisi durante le quali spaccava tutto finché un giorno...ebbe la sua ultima crisi...Morì dopo pochi giorni all'ospedale, nel reparto dei pazzi furiosi...E Tanja si ritrovò sola a Parigi nella stanza dell'alberghetto economico dove era venuta.”
E così, andata in frantumi la "sfera di cristallo" in cui Tanja aveva fin lì vissuto, la sola e unica cosa che può fare è tentare di ricostruirne un'altra con un altro uomo. Ed è a questo scopo che si dedicherà, ingegnandosi, con quel poco che le rimane, per rendersi presentabile e credibile là dove quegli uomini che ha in mente è possibile trovarli. Quello che la Berberova ci racconta da qui in poi è il peregrinare di Tanja lungo un itinerario squallido e penoso, fatto di ristoranti e locali dove "consumare" quella sua ricerca di conoscenze maschili. In realtà stazioni del dolore di una donna senza più patria né famiglia, sola con se stessa e incapace di uscire da se stessa, oggettivamente dipendente, facilmente ricattabile. Tanja quegli incontri li farà ma saranno tragicamente lontani da quelli sognati. Saranno solo offese, umiliazioni e sfruttamento quello che subirà, proverà e vivrà, per svariati anni.
Sarà Bologovskij, ex tenente della cavalleria zarista che ora fa il cameriere in uno di quei ristoranti in cui Tanja continua ad andare, che incarnerà la fine di ogni illusione di Tanja e sarà proprio lui, che era stato l'unico di quegli uomini incontrati a Parigi ad amarla, l'artefice della fine di quella sua vita non più vissuta. La loro relazione era nata in quel ristorante sull'onda del loro comune passato in Russia ma anche, e soprattutto, per la solitudine di entrambi e il loro reciproco bisogno di conforto. Bologovskij si ritrova vecchio e solo a servire la gente ai tavoli. ridotto a fare il lacché, e Tanja diventa per lui una speranza di felicità a cui ancorarsi per la propria salvezza.Tanja a sua volta aveva bisogno di qualcuno che si occupasse di lei e Bologovskij era pronto a farlo, ma la distanza fra quanto quell'uomo poteva darle e quanto lei avrebbe voluto restava incolmabile. In Tanja una pulsione distruttiva si unisce a un rancoroso desiderio di vendetta nei confronti del mondo.
E a quella felicità che si è ormai infranta l'unica cosa che riesce ad opporre è la voglia di farla finita, facendo di Bologovskij il capro espiatorio di quella sua misera esistenza. “Il lacché e la puttana” si fa via via il resoconto di un distillato della vita come privazione. E in questo epos della privazione a Tanja neanche il come morire sarà dato. Il suo piano le si ritorce contro e quella morte che pensava di procurarsi a modo suo, realizzando nel contempo quella sua vendetta, sarà invece, in quanto le sarà inferta, un'ennesima cosa subita. E alla fine di tutto, almeno di un'ultima privazione Tanja avrebbe potuto essere certa, liberatoriamente certa: “Ma, grazie a Dio, non c'era futuro.”

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