La finestra della biblioteca

Il racconto di Margaret Oliphant è la proposta di lettura per il mese di ottobre all’interno del ciclo “Racconti al femminile”. ()
9788892761803 0 536 0 75
Nella raccolta postuma di poesie in prosa di Charles Baudelaire, nota con il titolo "Lo spleen de Paris", uno dei componimenti ha come titolo "Le finestre" e il suo incipit così recita: "Chi guarda dal di fuori attraverso una finestra aperta non vede mai tante cose quanto colui che guarda una finestra chiusa... Quanto si può vedere al sole è sempre meno interessante di quanto avviene dietro un vetro. In quel buco nero o luminoso vive la vita, sogna la vita, soffre la vita”. L' "invisibile" racchiuso in una finestra chiusa, dice Baudelaire, può suscitare ed evocare in noi un tale surplus di "visibile" da renderlo assai più potente ed attraente di ciò che si può vedere da una finestra aperta.

Ed è proprio questo tipo di esperienza che Margaret Oliphant ha messo al centro del racconto “La finestra della biblioteca” che è uno dei suoi racconti “visionari” che fa capo alla raccolta “Storie del visibile e dell'invisibile”. Questi racconti, sebbene siano stati considerati, per molto tempo, secondari nell'insieme della produzione della Oliphant, sono diventati negli ultimi anni oggetto di riscoperta e di attenzione. In particolare, per quanto riguarda “La finestra della biblioteca”, le sue qualità hanno indotto a collocarlo, nell'ambito della letteratura fantastica di lingua inglese, accanto a opere come “Il giro di vite” di Henry James - avendo entrambi in comune il tema della “visione” - e di cui è, tra l'altro, precursore dato che “Il giro di vite” è del 1898 mentre “La finestra della biblioteca” fu pubblicato per la prima volta nel 1896, giusto l'anno prima della morte della Oliphant, avvenuta all'età di 69 anni, essendo nata nel 1828 in Scozia. Come sintetizza Silvio Raffo nella sua prefazione all'edizione de “La finestra della biblioteca” pubblicata dalla elliot edizioni nel 2022, Magaret Oliphant è stata “Una narratrice...definibile nella quasi totalità delle sue opere scrittrice “realistica” incline all'indagine dei comportamenti ma disposta a concedersi una deviazione di percorso nel genere fantastico-visionario con una serie di prodigiosi racconti intitolata per l'appunto’Storie del visibile e dell'invisibile’”.
“La finestra della biblioteca” è percorso, sin dall'inizio, da una condizione di incertezza e di dubbio che incrina la stabilità della realtà e il potervi fare affidamento. L'opinabilità su quella che è la reale natura delle cose, fino ad arrivare ad una opinabilità sulla loro esistenza attraversa tutto il racconto e solleva una serie di domande sull' idea di realtà sintetizzabili nell'interrogativo: quello che vediamo è la realtà delle cose o è quello che crediamo di vedere. L' opinabilità si presenta, all'inizio, non solo come possibile ma come un dato di fatto con il quale si convive. Tale infatti sarà il modo in cui essa viene vissuta con riferimento alla effettiva natura di quella "finestra della biblioteca" che l'adolescente, protagonista del racconto, nonché io narrante, vede dalla finestra del salotto dell' anziana zia presso la quale è ospite durante quelle sue vacanze estive. Ella amava infatti sedersi a quella finestra che aveva una profonda nicchia nella quale si rintanava per stare con se stessa ed estraniarsi dal resto della casa, rivolgendo lo sguardo all'esterno o immergendosi nella lettura. E, proprio di fronte ad essa, vi era quella biblioteca con quella sua strana finestra. La Oliphant, tramite la narratrice, ci dice subito, già nell' incipit, che su quella finestra esistevano difformi attribuzioni riguardo la sua natura. E ciò avrà riscontro quando la protagonista riporterà il contenuto di quella conversazione tra sua zia e quelle sue vecchie amiche venute a trovarla, nel corso della quale viene fuori che su quella finestra aleggiava un "mistero" che si trascinava da tempo e che non aveva ancora avuto soluzione: "La domanda è, disse mia zia, se si tratti di una finestra vera, con il vetro, o se sia soltanto dipinta, o se un tempo fosse una finestra che in seguito è stata murata. E più la gente la guarda, meno riesce a decidersi." L'opinabilità è quindi introdotta ed ammessa come una possibilità insita nelle cose. E il dilemma vero/falso e cioè: una finestra vera, oppure una finestra dipinta o una ex finestra, si presenta sulla scena implicando l'esistenza di quel “mistero” che diverrà fatale per la giovane protagonista. La quale si troverà coinvolta in un' esperienza fatta di disorientamento e di turbamento determinati dal "vedere", a quella finestra, l'apparire di una presenza che le si manifesterà in modo sempre più vivido, laddove, per gli altri, non c'è che una non meglio precisata finestra sul muro della casa di fronte. Tale visione troverà terreno fertile in due fattori uno interno ed uno esterno alla giovane protagonista. Quello interno è la sua spiccata sensibilità e acutezza percettivo/immaginativa che le consentiva di “sentire" e di " vedere" in modo più intenso e ricettivo rispetto agli altri. Quello esterno era dato dal luogo e dal periodo dell'anno nei quali è ambientato il racconto – il mese di giugno in Scozia – in cui si verificava quel particolare contrasto luce/ombra che giocherà un suo ruolo nell' alimentare quell'ambiguo effetto tra "il cosa si vede" e " il cosa si sta credendo di vedere". Un contrasto luce/ombra che da fisico, quale esso è, diverrà, nel corso del racconto, sempre più metafisico, nella misura in cui contribuirà in modo inscindibile al formarsi o al dissolversi dell'immagine di quello "sconosciuto" che la giovane protagonista dice di vedere. Incuriosita perciò da quelle discussioni, ella rivolgerà la sua attenzione a quella finestra e inizierà, in modo via via sempre più penetrante, a guardarci "dentro". Appurando che - per lei - quella finestra esisteva, avendo avvertito, dietro ad essa, "una sensazione di spazio, come qualsiasi stanza quando la si guarda dall'altra parte della strada”. E, approfondendo ulteriormente, le apparirà pure un oggetto deducendo che doveva trattarsi di "una grande libreria". Ma tutte queste cose viste e affermate così perentoriamente non appena la luce era mutata di intensità erano scomparse ai suoi occhi, affondando nel nulla. Tuttavia, passati alcuni giorni, quell' "apparizione" della stanza si ripresenterà. Questa volta, però, il mobile che le era sembrato una libreria era diventato “un secretarie”, corrispondente a quello che si trovava nella biblioteca di suo padre. Ora questo riferimento alla casa paterna e, soprattutto, alla figura paterna si ripresenterà anche nelle successive "visioni" che la protagonista avrà, come se, in esse, si ricostituisse il suo immaginario paterno. Intanto, ad ogni dissolvenza, si sentirà sempre più combattuta tra il sentirsi in preda a un sogno e il credere che tutto ciò fosse reale, di trovarsi cioè come su una linea di confine tra sogno e realtà. E ciò assumerà una valenza ancora più forte allorquando arriverà la “visione” di quel giovane, chino sui libri, intento a scrivere. Rapita e catturata da tale "visione" la protagonista ne è preda, restandone ammaliata, fino a sentirsi sempre più convinta che il suo sguardo l'aveva messa di fronte ad una realtà effettiva. A quella prima apparizione ne seguiranno altre, con un crescendo di particolari che avvicineranno, via via, i contorni di quella figura rendendola, ai suoi occhi, sempre più nitida. Ed esse saranno così frequenti da diventare praticamente quotidiane, producendole uno stato di concentrazione tale da isolarla dal resto del mondo. Ma un'imprevista visita all'interno delle sale di quella biblioteca creerà un nuovo e inatteso sgomento: la finestra della biblioteca, laddove avrebbe dovuto essere, non c'era. E, in effetti, quella finestra come tale non esisteva, era stata creata fittiziamente. Essa appariva all'esterno, ma non era una vera finestra, come le dirà uno dei presenti. Ma nonostante quella “rivelazione”, l'effetto stordente che essa produrrà invece che indurla alla rinuncia alimenteranno in lei ancora di più la “visione”, fino al punto di instaurarsi quella che lei vivrà come una vera e propria reciprocità di sguardi tra lei e il suo “sconosciuto”. Dopo essersi rivolta a lui e averlo incitato a parlarle in nome di una comune solitudine che ella gli attribuisce le sembrerà che egli le si manifesti, aprendo la finestra e incrociando il suo sguardo. Le aspettative, nutrite dalla protagonista, che quella “visione” non fosse più solo sua resteranno “ovviamente” deluse e chi le sta intorno comincerà ad avere paura e apprensione per quella sua ostinata ricerca di conferme che si scontrerà con l'evidenza di sempre: “La finestra era com'era sempre stata, un cupo varco nel muro.” Non sapremo mai se e chi ella aveva visto. L'evanescenza e le ombreggiature di questa storia avranno alla fine il sopravvento e saranno l'unica vera realtà di essa, come sicuramente l'Oliphant voleva che fosse. Ma in questa ragnatela finissima, in questo tessuto che, come un prezioso pizzo, si distende e avvolge concentricamente il racconto restano al suo interno, come impigliati, degli interrogativi aperti. Era stato tutto un inganno o forse ella aveva visto qualcosa? Magari il “fantasma” di quell' “uomo che teneva ai suoi libri più che all'amore”, di cui la zia, riportando un “Si dice”, le accennerà la storia la cui protagonista assomigliava a lei. Ma siccome “l'immaginazione ordisce grandi inganni”, come lei stessa dirà, rievocando quei fatti molti anni dopo, forse quelle sue visioni contenevano nient'altro che dei suoi desideri, delle sue fantasie, delle sue proiezioni: quella paterna, oppure quella di avere qualcuno con cui condividere la sua solitudine, oppure quella dell'amore giacché, come le dirà un'amica della zia, “non fidarti mai di ciò che vedi dalla finestra. Gli occhi ingannano, e lo stesso il cuore.”

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