Gigi Campolo,
primario emerito dell’ospedale di Niguarda, ha recentemente firmato, con altri
colleghi, una
lettera al Corriere della Sera in cui la questione Città della Salute è stata
di fatto ribaltata. Invece di un progetto calato dall’alto, orchestrato dalla
Regione, la lettera chiede di mettere al centro, nelle scelte sul futuro del
Besta e dell’Istituto Tumori le esigenze concrete di chi lavora ogni giorno nei
due istituti. Una richiesta che potrebbe apparire ovvia, ma che così non è. E
che ha fatto un certo sclpore, facendo uscire la discussione sulla Città della
salute dal limbo (un po’ malsano) dei soli progetti edilizi, o urbanistici,
contrapposti. Verso requisiti sanitari e di sviluppo reali dei due istituti.
Quali la non opportunità di spostare l’Istituto Tumori. E, per il Besta, la sua
collocazione vicina a un grande Ospedale generalista.
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Come ricostruisci l’intera vicenda?
Tutta la
discussione sulla Città della Salute si è caratterizzata, almeno finora, per la
scarsa partecipazione della dirigenza sia dei tumori che del Besta. Si è svolta
al di sopra degli operatori, prevedendo l’istituzione di questa Città della
Salute come progetto capace di riunire in un unico punto una città di cura e di
ricerca. Riunendo tre soggetti: due Ircs e l’ospedale Sacco di Milano. Su un
territorio vicino a lui, ai confini con il comune di Nerviano. Un posto
presentato come il polo pubblico di ricerca di alto livello.
Contro questo
progetto si era già espressa la rappresentanza sindacale dell’Isituto dei
tumori, sostenendo che era illogico un suo spostamento dato che aveva appena
fatto grossi investimenti, come l’AmadeoLab, per arricchire la sua dotazione di
ricerca e di laboratori.
In apparenza
il Besta non diceva nulla. Anche perchè al Besta era stato messo un direttore
generale di sicura fede formigoniana.
Che è apparso come il soggetto interno per far passare questa operazione.
Ma veniamo ai
giorni nostri: due anni fa mettono in piedi un comitato per la città della
salute, che ha sperperato un sacco di soldi per fare progetti, che poi si
scioglie l’anno scorso.
A fine 2011
si capisce che l’area non ha i requisiti necessari, perché le passa in mezzo un
torrente che mette a rischio la sua stabilità idrogeologica. In secondo luogo
mancava delle infrastrutture di trasporto. O il Comune spendeva svariati
miliardi per portare lì metropolitane leggere e quant’altro, oppure sarebbe rimasta
una zona comunque non raggiungibile. A quel punto quell’ipotesi è caduta
verticalmente. Ed è iniziato un gioco anche tra Comune e Regione su dove
collocare alternativamente la Città della Salute. Sono state individuate due
ipotesi. Per il Comune la caserma Perrucchetti, per la Regione l’area di Sesto
San Giovanni, offerta dal sindaco di Sesto. Ambedue sono aree pubbliche senza
costi particolari, con necessità di alcune bonifiche, più facili sulla
Perrucchetti e meno su quella di Sesto, ma comunque questo un problema di chi
dovrà eventualmente operare la bonifica.
Entriamo nella scelta tra Perrucchetti e Area Falck….
E’ una
situazione di stallo trascinatasi da dicembre, a colpi di ripetuti ultimatum
che si sono dati la Regione e Comune. Senza però uscire da questa dicotomia.
Il forum
Salute di Sel, a cui partecipo, usciva nel frattempo con un documento in cui
non si prendeva posizione né per l’una né per l’altra soluzione ma si
indicavano semplicemente alcuni requisiti. A quel punto sono partite alcune
manovre, anche sostenute da personaggi Pd, per spingere la soluzione Sesto. Ma
è stata l’altra ipotesi, più pericolosa, quella che avanza l’ipotesi di
trasferire questi istituti vicino al Cerba, ovvero quell’istituto privato che
Veronesi ha avviato sui terreni di Ligresti vicino all’Ieo nel Parco Sud.
L’unico che ha sposato l’ipotesi Cerba è stato Podestà della Provincia. Mentre
Formigoni è rimasto defilato, ma molti pensano sia l’ipotesi che davvero
preferisce.
Questa
ipotesi però ha ricevuto risposte negative piuttosto dure da parte dei due
istituti, che non vogliono farsi colonizzare da Veronesi.
Ovvero:
quello che ha scelto la strada del privato ora vuol cavalcare due strutture
pubbliche, ciascuna con 30-40 anni di storia.
Mentre questo
avveniva, l’interlocuzione con i responsabili operativi sia dell’Istituto
Tumori che del Neurologico non è mai avvenuta. Quando abbiamo cominciato a
parlare con loro abbiamo scoperto alcune cose. Primo, i due istituti sono
strutture monospecialistiche, e come tali con molti difetti. E quindi aveva
senso non tanto mettere insieme loro due, ma con un ospedale generale. Con i
vantaggi di avere tutte le strutture e tutti i servizi che la struttura
monospecialistica fa difetto ad avere. Dato che è saltata l’operazione con il
Sacco questa opportunità è venuta meno.
Secondo,
viene fuori che le due strutture hanno degenze molto diverse. Il Besta ormai
non ha più spazio, non è in grado di allargarsi di un solo metro. Ha già un
sacco di attività fuori, de localizzate, e per crescere ha bisogno di un’area assolutamente
nuova. Mentre il Tumori non ha questo problema di aver riempito già tutti gli
spazi, o quantomeno non è così impellente. In più tra i due istituti, che pure
si rispettano a vicenda, l’idea che possano formare un polo di ricerca è una
stupidata. Non hanno mai fatto una ricerca in comune. I partner li trovano a
livello internazionale, ma non tra di loro perché fanno cose davvero diverse.
Il
neurologico ritiene davvero di aver bisogno di un ospedale generale, perché la
sua monospecialità è isolante, e non la fa crescere.
Questa è la
situazione ad oggi. Le ipotesi sul tappeto sono due palesi e una nascosta. Le
palesi sono Sesto-Falck e la Perrucchetti, la terza nascosta è l’adesione al
Cerba di Veronesi.
Il che salverebbe anche gli interessi del
gruppo immobiliare Ligresti, proprietario di quei terreni, oggi in gravi
difficoltà…
Il nostro
problema non è salvare gli immobiliaristi. Ma di dare un futuro a due istituti
di grande valore.
Come è nata la lettera al Corriere?
La lettera
sul Corriere è nata da un articolo di Schiavi, in cui si cominciava a parlare
di temi concreti. Noi abbiamo solo detto che per fare questa scelta bisognava
sentire i diretti interessati, senza imporre soluzioni sopra la loro testa.
In fondo la
scelta dell’uno o dell’altro è indifferente. Quindi non è detto che le
interazioni tra i due istituti siano così grandi, nè è detto che abbiano lo
stesso bisogno di nuovi spazi per svilupparsi, non è detto che almeno uno dei
due istituti non abbia bisogno di un ospedale generale per crescere. Quindi bisogna
coinvolgere i responsabili operativi, oltre i direttori generali.
Le differenze
sono evidenti. L’Istituto dei tumori ha già avuto molte estensioni in città Studi,
ha acquisito un notevole complesso ex Siemens a Via Amadeo.
Per il Besta
c’è invece un problema centrale. Ha il
massimo interesse alla prossimità di un grande ospedale. E qualcuno ha proposto
il Niguarda, che ha costruito vari palazzi nuovi al suo interno e ha dismesso
una serie di corsie, che potrebbero essere riattate. O in alternativa potrebbe
essere il Policlinico, usando gli spazi del Pini… tante ipotesi, ma la
necessità è quella di stare vicini all’ospedale generale.
Conseguenze
per la Zona Tre?
Questi sono
istituti non solo di rilievo nazionale, ma internazionale. Certo, alla Zona 3
può dispiacere che vadano via queste strutture di prestigio, ma la realtà è
quella che è. Il punto però è: se vanno via, non permettiamo che quegli spazi
vadano solo a edilizia privata, ma a strutture sanitarie alternative, magari
ambulatoriali. Ormai la zona non ha quasi più nulla di sanitario.
Il messaggio riassuntivo?
Il punto è
che siano costretti a uscire allo scoperto gli operatori, in particolare quelli
del Besta. Non possiamo progettare o programmare sulla loro testa.
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Sul futuro e i problemi dell'Istituto Nazionale dei Tumori un'intervista a Pasquale Brunacci, coordinatore dell'Rsu dell'Int (continua a leggere).
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A cura di: Beppe Caravita