Casa d'altri

Il racconto di Silvio D’Arzo è la proposta per il mese di marzo del ciclo di letture “Racconti italiani d’autore”. ()
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“Casa d’altri” è il capolavoro di Silvio D'Arzo ed uno dei più grandi racconti della nostra letteratura: fu definito “perfetto” da Eugenio Montale. Morto prematuramente nel '52, a 32 anni, Silvio D'Arzo - il cui vero nome era Ezio Comparoni, sebbene sia stato da sempre conosciuto con lo pseudonimo di Silvio D'Arzo, che lui stesso si era dato - non ne vide la pubblicazione, “Casa d'altri” uscì infatti dopo la sua morte. E, sin da allora - pur nella disattenzione presso il grande pubblico - la valutazione dell'opera di Silvio D'Arzo e, in particolare, di questo racconto, è stata altissima. Il tema di “Casa d'altri” è il sentirsi estranei, e ciò non solo nel luogo in cui si vive ma nel mondo, come se appunto fossimo eternamente e permanentemente in “casa d’altri”.
E ciò diventa qui ancor più vero e drammatico perché coloro che ne saranno protagonisti sono un anziano prete e un’anziana donna credente e devota: la vecchia lavandaia Zelinda che, nel constatare e vivere tutta quella che sarà la loro personale impotenza di fronte a ciò, finiranno – in un tragico non detto – per dover constatare l’assenza di qualsiasi possibile salvezza. Il paradosso di “Casa d'altri” è che, in questo racconto, siamo messi di fronte a ciò che di più sacro vi sia, qual è appunto la vita in sé, ma questa sacralità si rivelerà, in realtà, impossibile da affermare e da preservare, venendo a mancare qualsiasi senso di appartenenza verso la vita che finisce per apparire inutile e insensata. E' questo infatti ciò che accade a Zelinda Icci la protagonista di “Casa d'altri” che, nello spoglio ermetismo della sua esistenza, si ergerà per affermare il suo bisogno umanissimo, eppure sintomo della fine di ogni umanità, di farla finita.
Perché se è vero che la vita che Zelinda conduce è fatta solo di stenti e di miseria al punto che tra la sua vita e quella della sua capra non vi è alcuna differenza come ella stessa in modo impietoso, a un certo punto dice, tuttavia il suo dramma non è materiale, non è causato dalla “mancanza” in sé, bensì dalla perdita di ogni prospettiva, terrena o ultraterrena che sia, dalla quale ricavare una qualsiasi motivazione a vivere. Zelinda denuda una condizione che prescinde dal possesso, perché non solo nulla è suo ma ella stessa non si possiede più, la sua vita le è estranea. Ella nella sua coscienza elementare e solitaria lo ha capito perfettamente, mentre ogni giorno, piegata sui lastroni di pietra, lava stracci e budella in fondo al canale. Nella constatazione, e implicita denuncia, dell'alienazione che scandisce la sua vita Zelinda capisce che solo di una cosa è rimasta padrona: della sua morte, perché della sua vita è stata già espropriata e per questo non vi è soluzione, ella è ormai fuori da una casa sua e non ha alcuna prospettiva di farvi ritorno. L'estremizzazione e la radicalità della vicenda di Zelinda è che essa pone un problema insolubile che è tale per chiunque si trovi di fronte lo spettro di una vita vuota.
Ma tale problema sarà insolubile anche religiosamente nel momento in cui neanche lui, il prete di Montelice: lo sperduto paesino di montagna dove si svolge “Casa d'altri”- quel “prete da sagre” quale egli stesso si era definito che, proprio cercando di scoprire il “segreto” di Zelinda e farlo proprio, si era illuso di poter riscattare quella sua ormai grigia vita di prete - neanche lui potrà nulla quando sarà chiamato alla prova dei fatti a dire una parola che dia una risposta, rivelando, il suo mutismo, tutta la sua impotenza. Zelinda gli si era rivolta dopo un lungo e tormentato percorso di avvicinamento perché lui, in quanto prete, le desse quel “permesso” attraverso cui poter pacificare e bonificare dal senso di colpa quella decisione estrema, non lasciandola sola di fronte ad essa. Facendo, in altre parole, di quel “permesso” un atto di carità. Ma la paradossalità di quella richiesta solleverà l'ovvio problema teologico che Zelinda, nella sua semplicità di obbediente cristiana, aveva sin dall'inizio temuto sarebbe sorto e che l'aveva a lungo resa reticente ad “aprirsi” con il prete.
Ma se l'impotenza del “sacro” esplode in “Casa d'altri” in modo devastante ma anche commovente, tuttavia il racconto non mira a denunciare il naufragio del “sacro” in sé, pur essendo questo un punto di arrivo irreversibile del racconto che ne illumina da dentro la sua tragicità. “Casa d'altri” va oltre questo e affronta la condizione di solitudine dell'uomo nel mondo, che riguarda l'uomo in sé.
A tal punto che la stessa conclusione del racconto, in cui il vecchio prete sente che anche per lui “é ormai ora di preparare le valigie...e senza chiasso partir verso casa” non evoca una soluzione religiosa quanto piuttosto un destino comune agli esseri umani, constatando anche lui di vivere, su questa terra, in “casa d'altri”. In quella sommessa e rassegnata pronuncia che egli fa la casa che deve raggiungere è infatti, anche per lui, quella della morte, la stessa casa che poco prima egli stesso ci aveva detto che anche Zelinda aveva raggiunto: “La vecchia è morta”, senza però dirci nulla sul come. Perché alla fine non è neanche più questo il punto: il come morire, ma il fatto che si è messi sempre e comunque di fronte alla morte e in ciò ognuno, anche il prete, si trova solo con se stesso.
Vi è quindi all'interno di “Casa d'altri” un'evidente impronta metafisica, perché ciò intorno a cui D'Arzo fa ruotare il racconto, alla luce del modo in cui i suoi personaggi esprimono se stessi, non è di ordine né spirituale, né sociale ma esistenziale e metafisico. Ricorre infatti in “Casa d'altri” un indugiare sull'incertezza e sulla fragilità dell'esistenza che si manifesta nella stessa esilità della trama, nel ritmo che cadenza e asseconda le pause contemplative, nella tensione al silenzio e alla solitudine del personaggio di Zelinda la quale diviene, essa stessa, nel corso del racconto una sorta di “metafora metafisica” sospesa come essa è tra la vita e la morte.
Ma anche il contesto in cui si svolge “Casa d'altri”, pur immerso in un quadro topografico e in uno scenario fisico assolutamente realistico, va sganciato da una “lettura” di questo tipo, configurandosi invece come luogo letterario e, in quanto tale, assolutamente finzionale, come un “altrove”. Infatti, sebbene puntualmente descritto in tutta la sua selvatica asprezza Montelice non esiste, è nome e luogo di fantasia e, nella sua narrazione, D' Arzo riesce ad avvolgere quei luoghi in un'atmosfera di sospesa irrealtà conferendogli un'espressività che li trascende rispetto alla loro collocazione geografica. D'Arzo si serve di questa essenzialità, persino spietata, dei paesaggi come contesto sintonico e visivo organico al racconto dove i toni lirici sono imbevuti di profonda e disarmata amarezza, diventando, il paesaggio, contrappunto dei vissuti dei personaggi.
E tuttavia, se la stasi e l'immobilità sono le condizioni che incombono nel mondo di “Casa d'altri”, ciò non mortifica mai la tensione narrativa che si mantiene incessante e serrata tra il vecchio prete e la vecchia Zelinda che occupano da veri protagonisti la scena, laddove tutto ciò che succede intorno appare sempre lontano e irrilevante rispetto alla posta in gioco tra di loro. Il tempo narrativo è quindi scandito dall'attesa che si sveli quel “mistero” che Zelinda vorrebbe dire ma che gelosamente e tormentatamente nasconde e di cui l'anziano prete vorrebbe conoscere il contenuto per potercisi confrontare, così da poter riaffermare, soprattutto con se stesso, la “competenza” che la sua vocazione prevede. Si ha così il paradosso di un uomo, che sembra interiormente ormai condannato a morire, che vorrebbe tornare a vivere, e di una donna, interiormente ancora lucidamente viva, che vorrebbe morire. Zelinda diventa così, per il prete di Montelice, una “ossessione”, alimentata, come essa è, dal differimento continuo di quella rivelazione. Il racconto registra infatti l'alternarsi di una interattività muta e a distanza, fatta di sguardi che sottendono tacite intese, con avvicinamenti ed incontri contrassegnati da malintesi, passi falsi, repentini dietro front, appostamenti senza esiti, che “ritardano” la rivelazione del segreto di Zelinda.
Ma quando Zelinda svelerà, nella sua tragica nudità, quel suo segreto il prete non potrà far altro che provare vergogna: “Di mio non una mezza parola...E la cosa più brutta era che lei stette ancora in attesa di qualcosa come un minuto e anche più. Stava lì e continuava a sperare... - Zelinda...- cominciai io, ma così goffamente da provare vergogna di tutte le parole del mondo.” Senza quelle attese parole che lei sperava di sentire e lui di dire finirà quell'incontro e, da quel momento, finirà quella storia: “Un'assurda vecchia: un assurdo prete: tutta una assurda storia da un soldo” dirà il vecchio prete alla fine. E di tutto ciò quello che resta è un grande senso di delicatezza, quel senso di delicatezza che si prova costantemente leggendo questo racconto, che lo avvolge e lo sorregge. Quella delicatezza che consente di rendere esprimibile l'inesprimibile, sopportabile ciò che appare insopportabile, vero ciò che è irreale, leggero ciò che schiaccia, pietoso ciò che è spietato perché solo stando dentro questa delicatezza è possibile scrivere un racconto così.

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Re: Casa d'altri
03/03/2022 Raffaele Santoro
Mi scuso del refuso relativo a da allora. La ringrazio per l'apprezzamento dell'articolo.
Raffaele Santoro


Re: Casa d'altri
03/03/2022 Raffaele Santoro
Mi scuso del refuso relativo a da allora. La ringrazio per l'apprezzamento dell'articolo.
Raffaele Santoro


Re: Casa d'altri
02/03/2022 Chiara Cavalli
Ho apprezzato l'articolo. Mi scuso per la pignoleria, ma alla quinta riga vedo scritto "dall'ora" : forse l'autore voleva scrivere "da allora" .
Trascuro errori di punteggiatura che potrebbero essere refusi.
Chiara


 
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