Da un vecchio libro cade una lettera

Un breve racconto. Un frammento di vita. ()
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I mercatini antiquari sono per me un'attrazione irresistibile.
Li frequento con piacere, incuriosita da tutto. Vecchi strumenti, stampi di rame, utensili di cucina, una casa di bambole. Tutto suggerisce un passato ricco di storie che puoi inventarti senza tema di essere contraddetto.
Ma sono i libri a richiamare la mia attenzione. Su queste bancarelle è difficile trovare libri molto vecchi. Quelli di cucina, poi, sono rarissimi.
Oggi è una giornata di sole, non ancora aggressivo. Una leggera brezza increspa il Naviglio.
Lungo le sue rive decine di bancarelle sciorinano di tutto. È un tripudio di colori e rumori sommessi.
Chi guarda commenta con discrezione e come un'onda la folla si apre e svicola intorno a chi si ferma.

Davanti a un banchetto di libri sosto anch'io. Comincio a leggere i titoli disposti di costa in uno scatolone.
"Posso?"
"Prego."

Il venditore è un anziano dall'aspetto pacioso che mi guarda come rassegnato. Difficilmente la giornata gli darà un margine oltre la mera sopravvivenza. Ne ha visti tanti di oziosi curiosi.
Estraggo con delicatezza un libro che dalla rilegatura direi della fine dell'Ottocento, nello stile tipico dell'epoca: carta marmorizzata con i quattro angoli rinforzati in tela.
Apro la prima pagina. La copertina originaria salvata su un supporto di cartoncino conferma la mia intuizione. È una delle prime edizioni dell'Artusi, il codificatore della cucina italiana.
"Quanto vuole per questo?"
"Cinquanta euro."
"Sconticino?"
"Quarantacinque. È dell'Artusi.
Vede come è rilegato bene?"

Mi vuole far su. Sa perfettamente che la rilegatura non originale deprezza la copia e di molto.
Lo compero comunque.
Ho altre edizioni di quella bibbia. Una in più non guasta. Questa è una terza. Mica male.

A casa appoggio il mio acquisto sul tavolo. Lo spolvero, faccio scorrere le pagine leggermente ambrate dal tempo. La carta non era delle migliori. Qualche pecca, piegoline, macchioline che testimoniano il suo uso concreto.
Nella terza di copertina noto una particolarità. Il rilegatore con il cartoncino ha creato una tasca. Forse su richiesta del committente. Forse destinata a raccogliere ritagli o ricette appuntate su foglietti sparsi.
Sollevo delicatamente il bordo e faccio scorrere un dito all'interno.
Incontro un leggero ostacolo. Guardo.
Nella tasca c'è un foglio. Lentamente lo estraggo.
È delicato, carta leggera, come quella aerea di una volta piegato in quattro.
Sempre più delicatamente e quasi ansiosamente lo allargo.
Le pieghe, secche, quasi spezzano il foglio.
È una lettera: maggio 1898.
La scrittura è elegante, corsivo inglese, con i suoi svolazzi. Inchiostro blu.

Un certo avvocato di Piacenza si rivolge a una signora di Parma.
Dopo le rituali formule di cortesia, prosegue riferendosi a una precedente comunicazione.
"Ecco la ricetta che avevo promesso di farle pervenire."
Il tono formale di questa lettera è uno spaccato di costume che la rende quasi più interessante, se non più pregevole, del libro.
Tramite la ricetta il mittente trasmette alla signora un messaggio di interesse personale che forse travalica il codice di comportamento ammesso all'epoca.
Chissà se la storia, se mai c'è stata, ha avuto un seguito?
Se la signora ha invitato l'avvocato ad assaggiare la realizzazione della ricetta suggerita, in una qualche occasione mondana, per poterlo rivedere senza sollevare maldicenze?
Ho incorniciato la lettera e ogni tanto la guardo riflettendo su come, oggi, la comunicazione sia affidata alla tecnologia.
Sarebbe ormai anacronistico scrivere una lettera simile, quando con una 'app' comunichi quello che vuoi a chi vuoi.
Senza neppure spendere per carta e francobollo. Ma li vendono ancora!

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