L'airone

È il romanzo di Bassani a essere protagonista per il mese di marzo del percorso di lettura “Luoghi letterari del ‘900 italiano”. ()
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“L'airone” è il resoconto della giornata che il protagonista, Edgardo Limentani, condurrà dalle prime ore dell'alba fino alla tarda notte, per andare dalla sua casa di Ferrara nelle valli del Po - cioè nell'area del delta - per una battuta di caccia agli uccelli che popolano quell'ambiente, facendo, al termine di quella giornata, ritorno a Ferrara. Quella giornata sarà quindi, prima di tutto, un viaggio: da Ferrara a Codigoro, poi da Codigoro a Volano e relativi ritorni, ma un viaggio che, da fisico, si muterà, in realtà, in un vero e proprio viaggio esistenziale. E, come tale, porterà Edgardo Limentani a dare un “senso” a quella giornata che si rivelerà per lui decisivo in quanto, con esso, egli darà un senso a tutta la sua vita.
Un senso finalmente suo che lo riapproprierà con la vita, restituendogli una vita finalmente sua. Quello infatti sarà l'ultimo giorno della vita di Edgardo che sceglierà, liberamente e deliberatamente, di mettervi fine alla fine di quella giornata. Ma quello che a noi appare un tragico epilogo sarà, per Edgardo, un riprendersi la vita. Un liberarsi da quel dolore, da quel non senso, da quella mediocrità del vivere divenuti per lui paralizzanti. Sostituendo con quanto di più vero: la morte, quel finto che era diventata per lui la vita. Un desiderio di annullamento che superando la paura della morte libera dall'angoscia di vivere.
Nel gesto disperato di Edgardo c'è un contenuto di verità e di autenticità che nella sua esistenza non c'era – forse disperso o forse mai esistito – che non trovava affermazione, che restava soffocato. Limentani, con quel gesto, spezza a suo modo, la barriera che lo separa dal mondo e vi entra a modo suo, facendosi forte nella e della sua debolezza: “...era come se fra lui e le cose che vedeva si levasse una specie di sottile e trasparente lastra di vetro. Le cose tutte “di là”; e lui, “di qua”, a guardarle ad una ad una e a meravigliarsene”.
Di fatto Edgardo Limentani era già morto da vivo o, quanto meno, era un moribondo. Nulla in lui era più in grado di suscitargli qualcosa e quell'indifferenza alimentava solo la sua angoscia, come una malattia che lo stava uccidendo. “L'airone” diviene quindi progressivamente il resoconto di un vero e proprio percorso di avvicinamento all'idea della morte, in cui quell'idea “lavora” dentro Edgardo fino a sfociare in una luminosa consapevolezza, facendo di un “cadavere vivente” un essere umano. Perché è proprio il contenuto umano e di umanità che umanizza quel gesto e restituisce ad Edgardo una dignità, nel segno di una pietà e di una compassione profonde.
E quel percorso troverà il suo acme simbolicamente premonitore nell'airone. Che appare sulla scena come se fosse già predestinato a morire e la cui successiva uccisione diverrà un evidente annuncio del destino di Edgardo. Ma non sarà lui ad ucciderlo, in realtà Edgardo Limentani non tirerà un solo colpo di fucile durante quella battuta di caccia, assistendovi da dentro quella “botte” da cui avrebbe dovuto sparare. Non ne sarà capace, non ne avrà la forza, sentendo invece un profondo disgusto per il sangue di tutti quegli animali uccisi che vedrà scorrere.
In realtà quella battuta di caccia era stata per lui una decisione come un'altra presa, più che altro, per allontanarsi almeno per un po' dai luoghi e dalle persone abituali.
Dalla moglie Nives, sposata più per necessità che per amore dato che Edgardo, proprietario di una vasta tenuta, in quanto ebreo, a causa delle leggi razziali, avrebbe rischiato di perdere le sue terre e quindi le aveva intestate alla Nives che ebrea non è, la quale però, adesso, a guerra finita, di fatto, di quelle terre, ne è la padrona. Una moglie quindi mai amata davvero e con la quale non ha più alcuna effettiva intimità. Dalla figlia, dalla quale, dolorosamente, sente, anche da lei, la distanza.
Dalla vecchia madre alla quale Edgardo resta profondamente legato, ma che pur vivendo in casa con loro è, anche perché malata, come se vivesse rinchiusa in suo mondo che finisce per rendere anche lei distante. Persone da cui Edgardo si sente in realtà braccato, da cui ha bisogno di “staccare” per alleviare l'opprimente estraneità.

Ma nessuna delle cose che Edgardo Limentani farà durante quella giornata avrà per lui un vero significato, risponderà a un reale bisogno. Dal lento e tormentato risveglio mattutino, alla laboriosa partenza. Dalla prima sosta a Codigoro all'arrivo a Volano dove Edgardo arriverà in grande ritardo rispetto al previsto. Rivelando, quel suo rallentato procedere, la sua indeterminatezza e la sua inedia, quasi non avesse una reale convinzione in ciò che egli sta facendo se non, forse, solo quella di raggiungere quei luoghi solitari e distanti ai quali è diretto, per allontanarsi e separarsi ancor più dal mondo.
Poi l'irrompere della battuta di caccia, il rientro a Codigoro fermandosi a mangiare nella locanda e poi a dormirvi, facendo un terribile sogno. In cui Edgardo si percepisce come ormai privo di energia vitale, come fosse già morto, in quella straziante scena con quella donna che, entratagli in camera, di fronte a lui che gli mostra il membro, gli dice: “Cosa vuoi baciare. Non vedi come è ridotto? Sei proprio a terra...Sei proprio senza”.
Ma in quella assurda e alienante giornata l'unico essere a cui Edgardo si sentirà realmente vicino, che sentirà non estraneo, anzi affine sarà proprio l'airone che mentre, a fatica e indebolito, si aggira vicino alla “botte”- ferito dalla fucilata di Gavino, il cacciatore, quello vero, che accompagna Edgardo e che tirerà giù uccelli a non finire - così viene descritto da Edgardo che lo osserva identificandosi: “...l'airone aveva dovuto sentirsi all'incirca come lui adesso, senza la minima possibilità di sortita”. L'airone rispecchia Edgardo e nell'airone Edgardo si rispecchia.
Come Edgardo l'airone appare “isolato”, goffo e affaticato nel procedere, come si fosse smarrito e fosse smarrito, in una indeterminatezza nel perché egli sia lì che richiama l'analogo “non senso” che ha portato lì Edgardo.
Quella morte che si manifesta prepotente nello sterminio degli uccelli e, tra essi, de l'airone, non sarà però quella che ispirerà Edgardo, al contrario ad ispirarlo sarà una morte che trascende la morte, che la fissa, nella sua rigidità, in una bellezza che la eternizza, una morte che fa diventare più vivi dei vivi: “...si trattava della bottega d'imbalsamatore... la vetrina gli splendeva davanti come un piccolo, assolato universo a sé stante, contiguo ma inattingibile. Lo sapeva bene: c'era la lastra, in mezzo, a renderlo tale. E allora...si avvicinò di più, fin quasi a toccare il vetro con la fronte, a sentirsi sfiorare il volto da un freddo più freddo di quello dell'aria di sera. Di là dal vetro il silenzio, l'immobilità assoluta, la pace. Guardava da una ad una le bestie imbalsamate, magnifiche, tutte, nella loro morte, più vive che se fossero vive”.
In quella piazza di Codigoro, serotina, deserta, fredda ma scintillante per la luce che la vetrina emana, gli animali impagliati gli si presentano, come per incanto, immuni da ogni possibile offesa, ora e per sempre inattaccabili. Edgardo si avvicina a quell'ennesima lastra per annullare, il più possibile, la separatezza del “dentro” dal “fuori”, divenendo partecipe di quel silenzio, di quell'immobilità assoluta, di quella pace che preludono, liberatori, alla morte.
E sarà in quel momento che egli vede la sua morte e ad essa si predisporrà in un alone di leggerezza: “Più si avvicinava a Ferrara e più le sue riflessioni si facevano allegre, leggere”. Quella morte è, per Edgardo, comunque una conquista, una risposta alle sue pene, uno scampo. La scelta di anteporre il coraggio di morire al coraggio di vivere non ha né vinti né vincitori. Non è quella di Edgardo una scelta autodistruttiva, non più di quanto lo fosse, dal suo punto di vista, continuare a vivere, laddove la vita ha un'inevitabile, ma non per tutti uguale, né sopportabile, sofferenza.
“L'airone”, pubblicato nel 1968 e vincitore del Premio Campiello nel 1969 è l'ultimo romanzo di Bassani ed è anche quello in cui Bassani raggiunge in modo più alto ed acuto l'apice di quell' “iter malinconico” che attraversa e connota la sua opera. In esso troviamo temi fondamentali di Bassani quali la vita vista come esilio e la diversità come condizione esistenziale, a partire dalla propria condizione di diverso in quanto ebreo. Fino a dirci, come egli fa ne “L'airone”, come la vita stessa con il suo insopportabile disgusto possa uccidere.

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