Quer pasticciaccio brutto de via Merulana

L’appuntamento di dicembre con il percorso di lettura “Luoghi letterari del '900 italiano” a cura di Raffaele Santoro è con il capolavoro di Carlo Emilio Gadda. ()
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Apparso per la prima volta nel 1946, a puntate, sulla rivista “Letteratura”, passando però quasi inosservato, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, uscì in volume “solo” nel 1957 e fu, da subito, un grande successo. Da allora la sua notorietà e la sua importanza hanno portato il “Pasticciaccio” (“P.”) a diventare uno dei libri “monumento” della nostra letteratura.
E, nel commentarlo, non si può non partire dall'aspetto che forse più di tutti ha contribuito alla sua fama e cioè dal linguaggio. Quel linguaggio che ha consacrato Gadda come il più grande innovatore tra i nostri scrittori del Novecento facendone, per molti, il più grande tout – court. Quel linguaggio è infatti il frutto di un'originale ed irripetibile contaminazione di vari linguaggi essendo una combinazione di arcaismi e di dialettalismi, tra i quali svetta il romanesco in sintonia con l'ambientazione, è al tempo stesso raffinato e popolano, elaborato e immediato, contenendo, infine, vere e proprie invenzioni e storpiature linguistiche. Insomma una proliferazione di voci e di prospettive che serve a Gadda per rendere gli svariati rivoli in cui la realtà si dipana che trovano così il modo per essere rappresentati e detti.
Gadda, infatti, con quel linguaggio veicolerà la sua idea della realtà intesa come “groviglio” che trova nel “P.” la sua famosa traduzione nel termine “gnommero” che Gadda fa pronunciare all'altrettanto famoso personaggio del commissario Ingravallo, incaricato di risolvere quel misterioso delitto avvenuto al “duecentodiciannove de Via Merulana”, di cui è stata vittima la “sora Liliana”, cioè quella signora Liliana Balducci, sulla quale e a partire dalla quale si irradieranno molti altri ed intricati misteri.
Peraltro la scelta stessa fatta da Gadda di adottare il termine “pasticciaccio” sottolinea e rinforza l'aspetto della compresenza mischiata di vari elementi e della loro inestricabilità resa, peraltro, ancor più cupa ed oscura dal termine “brutto” che a “pasticciaccio” fa seguito. In altre parole Gadda, proprio attraverso la lingua che egli “inventa”, si prefigge di mettere a nudo il non-senso della normalità. Da qui derivano la parodia e il sarcasmo che compenetrano la sua scrittura dove la dissacrazione e la ridicolizzazione dei “valori” rivelano il suo accanimento contro qualsiasi illusorio ancoraggio alla razionalità dei luoghi comuni.
In questo modo anche il genere letterario del “giallo” viene “smontato” in quanto la ricerca delle cause e, con esse, dell'assassino, su cui il “P.” ruota, perde in realtà ogni valore risolutivo, essendo per Gadda del tutto irrilevante sia la soluzione in sé del suo ”giallo”, sia il “giallo” in quanto genere, a fronte invece del mistero e dei misteri – che sono il vero oggetto narrativo – che gravano su quel ”giallo” che diventa, ben più significativamente, metafora della vita stessa. L'investigazione attorno ad un atroce delitto diviene perciò l'occasione per un'indagine sui dati di costume, sui moventi segreti e torbidi della psicologia degli individui, sui particolari minimi delle abitudini e dei comportamenti, instaurando Gadda una dialettica ordine/disordine nella quale è quest'ultimo che dietro la facciata ordinata delle cose appare e penetra inesorabile la realtà, svelandone intrighi e inafferrabilità e minando alle radici qualsiasi idea di stabilità e sicurezza.
Già l'ambientazione del “P.” è, in questo senso, indicativa laddove prima quel furto dei gioielli nell'appartamento di fronte a quello della Balducci, poi l'assassinio della Balducci che, in rapida successione, avvengono in “quer gran palazzo dove non ce staveno che signori grossi” cioè tutte persone “bene”, rivela che anche lì le cose prendono una piega diversa rispetto a quello che quell'immagine di esclusività farebbe pensare. Vi è quindi nel “P.” uno schema che si ripeterà in modo ricorrente, per cui le cose non sono quelle che appaiono.
Le indagini diventano così strumento di scoperte e, in primo luogo, di scoperte sui personaggi. Esemplare in questo senso è la figura di Liliana Balducci che più che la vittima di un delitto di cui si deve trovare il colpevole diventa un mistero da sciogliere, rivelandosi l' ”ordine” nel quale ella conduce la sua vita pervertirsi nel proprio contrario. Il contrasto armonia/disarmonia domina infatti il personaggio di Liliana Balducci risaltando il conflitto fra i suoi modi affabili, eleganti, morigerati e quella che è invece l'interiorità e l'intimità dei pensieri e dei vissuti che ella trasmette e che trapelano. Vi è, insomma, una “crepa” nell'animo e nella vita di Liliana da cui fuoriesce una sofferenza e un malessere che fanno presagire che non sta bene, in altre parole che è infelice.
L'indagine diventa perciò, in parallelo a quella sul delitto, un'indagine sulla figura di Liliana. E più se ne scoprono i termini più se ne intorbidiscono le implicazioni perché da pura e semplice vittima di quel delitto, qual essa appare, in realtà si svelerà che Liliana l'aveva dentro di sé cercata e desiderata quella morte, pur senza averne mai dato alcuna palese manifestazione. E, in questo, Liliana incarnerà l'acme che raggiunge, all'interno del “P.”, la questione del mistero del femminile assunto, a sua volta, come simbolo dell'idea stessa di mistero.
Ora la ricorrenza del femminile sia come presenza di personaggi, sia per l'ambivalenza e la sfuggevolezza dei caratteri di tali personaggi ha, nel “P.”, una valenza simbolica che va oltre lo specifico del femminile, incarnando le figure femminili quella sfera degli istinti e delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni che, avendo una sua autonomia, finisce per comandare sulla ragione. Perché il mistero avvolge per Gadda quella sfera dell'esistenza segnata dalla sensibilità e dalle sensibilità che restano a loro volta misteriose nelle loro manifestazioni delle quali Gadda elegge appunto a simbolo quelle femminili.
E di quelle sensibilità, fino a farsi ipersensibilità, Liliana era intensamente e fortemente portatrice. La madre morta di parto quando ella era ancora bambina lascia un segno che diverrà un presagio e, al tempo stesso, una maledizione, perché Liliana da adulta vivrà l'impossibilità di poter avere figli e il suo desiderio inesaudito di poter diventare madre la affliggerà finendo per assoggettarla a ad una persistente malinconia. Né il marito gli è di alcun conforto, incapace come egli è di comprenderla, oltre ad essere pure fedifrago. Ma se ancora una volta le apparenze danno una facciata ordinata alle cose dato che Liliana resta comunque fedele al matrimonio, in ossequio al suo spirito religioso, in realtà ella cerca di surrogare il suo bisogno inadempiuto di maternità con mezzi che contrastano con quello spirito date le loro modalità ambigue e contorte. A partire da quell'andirivieni di domestiche e di sedicenti “nipoti” che, come una sorta di figlie adottive, Liliana prende in casa.
Un flusso di fanciulle penetra quindi nel romanzo ma non solo in chiave sostitutiva di quel figlio che non c'è, bensì anche sotto forma di un ambiguo rapporto di seduzione omoerotica tra Liliana e le sue protette. Un flusso erotico che trova la sua più esplicita apparizione nel personaggio di Virginia, una delle “nipoti”, che sarà anche una delle principali sospettate dell'assassinio di Liliana, il cui violento erotismo nei confronti della Balducci sembra contenere i segnali della futura aggressione mortale. Sono quindi presenti nel “P.” vari “meccanismi” pulsionali quali la maternità e la discendenza: interrottesi nel caso della madre di Liliana, del tutto non agite da Liliana, nonché la pulsione al matricidio e ciò nell'evocazione del possibile omicidio di Liliana da parte di Virginia, ma anche da parte di altre tra coloro che formavano il “gineceo” di Liliana e che Ingravallo sospetterà. Insomma tutti archetipi basilari della psiche individuale e collettiva che rimandano a Freud e quanto nel “P.” si avverta la presenza e il richiamo di Freud è acquisizione ormai diffusa.
Liliana non sarà peraltro esente neanche da un trasporto amoroso, se pur sublimato, verso il cugino Giuliano Valdarena che sarà il primo a scoprire Liliana morta e, per questo, il primo ad essere indagato. Liliana arriverà persino a chiedere a Giuliano che questi gli “regali” il primo figlio che egli avrà. Nella quale richiesta si mischiano torbidamente la sostituzione del coniuge con la surroga della mancata maternità. Ma nella “coppia”: Giuliano Valdarena prolifico-Liliana Balducci non prolifica, si gioca l'incontro-scontro tra natura e sua negazione, tra normalità e diversità. La sua inadempiuta maternità rende infatti Liliana Balducci una diversa sia come donna, sia rispetto al sistema di valori e al senso comune imperante: il “P.” è ambientato nel 1927, con Mussolini già al potere e impareggiabili sono, a questo proposito, le “tirate” ferocissime che Gadda, lungo tutto il romanzo gli rivolge e, in quel “mondo”, la prolificità era un valore imperante.
Questa diversità porta perciò Liliana a rinchiudersi in se stessa. E la condanna alla sterilità sentita come un malinconico destino funebre fa si che la sua morte è innanzitutto una morte interiore che la porterà ad arrendersi alla morte concedendosi al carnefice, così come la descrizione del cadavere, la sua postura e il suo aspetto suggeriranno. Ma la “diversità” di Liliana Balducci non è solo la sua personale e specifica diversità, ma è elemento connotativo di tutto il “P.”. Se consideriamo infatti i due principali protagonisti e cioè Ingravallo e la Balducci siamo di fronte a due figure la cui natura li pone fuori dagli schemi rispetto ai canoni che si pretendono da un poliziotto e da una donna normotipica e borghese. Perché un diverso è anche Ingravallo, poliziotto anomalo, idealista e malinconico, aduso a “filosofeggiare”, che rifiuta le semplificazioni, che ha una visione del mondo complessa e poco allegra.
Ed entrambi, Ingravallo e la Balducci, sono anche accomunati dai relativi destini romanzeschi dato che entrambi dovranno subire la sconfitta: tragica quella di Liliana, amara quella di Ingravallo, derivante dall'impotenza a cui, nei rispettivi ruoli, saranno costretti: non riuscendo a realizzarsi nei compiti a cui sono deputati. Ma se per Ingravallo e la Balducci la “diversità” è connaturata alla loro esistenza essa, in realtà, si insinua anche nelle identità di altri personaggi e, in modo forte e perentorio, anche in quel mondo basso e “marginale” che fa capo all'altro grande nucleo narrativo del “P.”, a cui porteranno le indagini, che ruota intorno a quel personaggio, sorta di moderna Circe, che è Zamira: al suo antro, ai rapporti sessual-professionali delle sue ragazze apprendiste. Non foss'altro per il ruolo equivoco della donna: sarta, tintora e tenutaria di mescita, ma soprattutto maga e maestra di prostituzione e delinquenza.
Vi è quindi un ventaglio di toni e di forme della “diversità” presenti nel “P.” che oscillano fra la tragedia e la commedia finendo, queste due dimensioni, per alternarsi e confondersi, laddove il tono prevalente del romanzo resta quello comico-ironico pur essendovi al suo interno una dimensione tragica sintetizzabile nell'idea che l'uomo e le sue azioni appaiono come enigmi i cui doppi sensi restano incessantemente da decifrare.
Una lettura in chiave di “diversità” ce la offre infine lo sfondo che le vicende del “P.” hanno e cioè Roma. Italo Calvino nell'affermare che il “P.” è “anche un romanzo su Roma” così descrive la presenza che ha Roma al suo interno: “La Città Eterna è la vera protagonista del libro, nelle sue classi sociali dalla media borghesia alla malavita, nelle voci della sua parlata dialettale (e dei vari dialetti che affiorano nel suo melting-pot), nella sua estroversione e nel suo inconscio più torbido.”
Ora la voce romanesca del “P.” contribuisce a produrre quella babele che non è solo linguistica ma che dà ulteriore espressione a quella deriva dei principi ordinatori generatrice del caos che è al centro del libro e dell'opera di Gadda. Roma è quindi protagonista nella misura in cui è essa stessa quel caos, in quanto intrinsecamente e costitutivamente immersa in un caos. Essa diventa l'antitesi della normalità, un luogo altro e diverso, in sé unico per rappresentare la caoticità del mondo, l'assurdità della realtà, il suo “garbuglio” e la sua frantumazione. In questo senso anche a livello toponomastico Roma viene fatta “esplodere” da Gadda in un repertorio ricchissimo e dettagliato fatto di vie, piazze, chiese, palazzi, monumenti, cimiteri, colli, quartieri e luoghi di interesse storico e civile, risultando oltre 100 i toponimi citati, tra i quali, in un modo o nell'altro, viene fatto “transitare” il romanzo.
E in questa policentricità, con cui Gadda trasforma Roma in “luogo letterario” tutto sembra ampliarsi, ramificarsi, intrecciarsi: tutto lo spazio romanzesco tende a configurare una planimetria espansiva senza un unico centro. Ed è proprio questa assenza di centro, quel suo essere romanzo multiplo e molteplice che rende “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” quel grandissimo e ineguagliabile romanzo che è.

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