Le cose che bruciano

L’ultimo romanzo di Michele Serra propone una lettura pacata e riflessiva degli anni in cui stiamo nostro
malgrado vivendo.
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Attilio Campi, detto Atti dall’avvenente e seducente sorella Lucrezia, vive a Roccapane, un “assurdo cocuzzolo” che a naso potremmo collocare sull’Appennino emiliano non lontano da una grande città che potrebbe essere Milano.
Attilio Campi ha poco meno di cinquant’anni e un recente passato da politico rampante in un partito progressista, roba da rischiare di fare persino il ministro.
Una sua contrastata proposta di legge, in curiosa analogia con un argomento della più recente cronaca politica, lo convince ad abbandonare quel mondo, rinunciando anche alle indennità previste per il ruolo, per rifugiarsi in un buen retiro dove anela di ritrovare, principalmente, se stesso.
Il taglio netto con il passato, lo costringe anche a un rapporto decisamente anomalo con l’amata moglie Maria che fa l’ingegnere, gira il mondo e gli passa quanto necessario per vivere.

In campagna, Attilio impara a fare il contadino, a tagliare gli alberi, a sarchiare il terreno, a coltivare lo zafferano con l’aiuto e l’amicizia di Severino, sapiente agricoltore di lungo corso, della Bulgara, donna di pazienza atavica, e di Federico, un giovane capraio fuggito anche lui dalla città e dagli incubi della vita, alla ricerca di se stesso.
Nel microcosmo agreste, si inserisce di passaggio Beppe Carradine, così chiamato per la somiglianza con l’intera genia dei famosi attori, che svolge opera di predicatore laico sulle montagne, a cui sono dedicate le pagine più riflessive del romanzo.
Nella vicenda, fondata principalmente su un dibattito tutto interiore e introspettivo, si inserisce poi un colpo di scena di cui non stiamo a dire perché merita che il lettore ci arrivi con una diretta conoscenza.
Campi dice di essere un “disertore della peggior specie”, non solo perché ha scelto la fuga dall’impegno della sua precedente esistenza, ma soprattutto perché ha scelto di militare in un altro campo e sotto altre bandiere, ma questo non è necessariamente disonorevole.
Frutto della sua “diserzione” è anche la voglia di tagliare i ponti concreti con il passato che si manifesta con la necessità di fare un falò non solo di oggetti reali che ha ereditato dalla famiglia (vecchie sedie, un canapè) ma anche di ingombranti ricordi contenuti in vecchie lettere.

Il tono pacato, mai gridato del racconto lascia intravedere anche qualche traccia di natura autobiografica che avvalora lo scorrere della narrazione di un autore con il quale, in quanto giornalista e opinionista politico, accade spesso di questi tempi di essere perfettamente d’accordo.
Merita una nota a sé, l’epilogo del romanzo che si intitola “Titoli di coda” in cui Serra riassume anche il futuro dei suoi personaggi come se fossero realmente reali e probabilmente lo sono o lo sarebbero.
Da questo capitolo trascriviamo tre righe: “Il nome di Roccapane è fittizio, perché a nessuno venga in mente di andarci e rovinare la quiete che governa, fino alla noia, la vita del luogo”.
Queste parole danno il senso del racconto perché, ancora una volta, tracciamo un labile confine tra reale e irreale, tra fantasia e storia, tra solitudine e solidarietà.
Nella pacatezza quasi compassata dei toni, nell’uso composto della dialettica e dell’ironia, nel romanzo non ci sono né assassini né vittime, a meno che, in via metaforica, tutti noi si sia contemporaneamente assassini e vittime.

Michele Serra
Le cose che bruciano
Feltrinelli
pp.171 € 15

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