Donne di scienza: I secoli XVII e XVIII

La donna è stata bloccata per secoli. Quando ha accesso alla cultura è come un’affamata. E il cibo è molto più utile a chi è affamato rispetto a chi è già saturo” Rita Levi Montalcini


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Fino al Rinascimento rimase radicato il pregiudizio circa le capacità intellettive femminili, come pure la distinzione rispetto ai ruoli sociali dei due sessi. Queste convinzioni implicarono due differenti modalità educative: una rivolta ai maschi appartenenti a nobiltà e borghesia con finalità all’impiego, l’altra rivolta alle donne di qualunque ceto sociale con finalità casalinghe.

Anche il tema della cittadinanza femminile mostra questo tipo di problematiche: da una parte, il titolo di cittadino, in una città medievale, ha un peso politico determinante perché consente di eleggere e di essere eletti alle cariche, d’altra parte, si tratta semplicemente della possibilità, offerta agli immigrati, dopo un certo tempo di residenza, di partecipare alla vita economica della città e di beneficiare della protezione e dell’assistenza. L’esclusione delle donne dalla politica e dunque dalla cittadinanza è un dato di fatto, che si ritrova, seppur in forme diverse, nel mondo greco, come in quello romano, come nella civiltà comunale e negli Stati della prima epoca moderna.

Oltre al generale pregiudizio dell’imbecillitas sexus, un possibile significato di tale esclusione è il fatto che la comunità urbana si compone di famiglie e che la cittadinanza spetta al paterfamilias. Questo modello si ritrova nel dato che le vedove avevano più facile accesso alla cittadinanza, attraverso la mediazione della loro iscrizione alle corporazioni, mentre per le donne nubili si creavano di fatto molti problemi.

In genere, sino ai nostri tempi, per le donne si parla di “cittadinanza passiva”, che consente la prospettiva dell’assistenza, della protezione e anche, caso mai, delle attività economiche e del mercato, senza mai tradursi in diritto a eleggere e essere elette alle cariche.

Nel XVIII secolo si realizzarono i primi effettivi passi nella scalata ai ruoli di “sapiente”. Mentre diverse donne erudite animavano i salotti e i maggiori centri culturali europei, si discuteva se “il gentil sesso” potesse essere ammesso nelle università.

Per la prima volta nella storia, nel 1678, l’università di Padova assegnava la laurea in filosofia alla veneziana Elena Lucrezia Corner Piscopia, dichiarando nello stesso tempo che sarebbe stata anche l’ultima.

L’Italia e in particolare Bologna procedevano all’avanguardia nella questione aperta: oltre a laureare in Giurisprudenza Maria Vittoria Delfini Dosi, nel 1750 sono tre le donne docenti: la filosofa Laura Bassi, la matematica Maria Gaetana Agnesi e l’anatomista Anna Morandi Manzolini.

Nel 1746, Émilie du Châtelet è ammessa all’Accademia delle Scienze bolognese dopo l’esclusione all’accesso nell’equivalente istituto parigino.


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