Wakefield e Il velo nero del pastore

Due fantastici racconti di Nathaniel Hawthorne sono la proposta di dicembre, a cura di Raffaele Santoro, per il ciclo di letture dedicato al tema “Quella ‘fantastica’ letteratura. La letteratura del fantastico tra ‘800 e ‘900”. ()
Hawthorne immagine copertina
Questi due famosissimi racconti di Hawthorne - che rappresentano una delle massime espressioni della sua opera - nella loro folgorante brevità, quasi come fossero delle parabole, possiedono, in realtà, una tale densità di temi e di implicazioni che, non a caso, da essi ne sono scaturite numerose e complesse interpretazioni. E in effetti la loro lettura, peraltro avvincente, suscita un senso di arcano e di misterioso, quasi di inspiegabile, che porta, inevitabilmente, ad interrogarsi sui precipitati che le vicende narrate e le loro dinamiche sottendono. Dal che si possono considerare come due racconti fantastici in senso fortemente allegorico e speculativo.

Ricompresi in quella raccolta di racconti dal titolo “Racconti raccontati due volte” - titolo che Hawthorne scelse in quanto tutti i racconti che vi sono contenuti furono pubblicati la prima volta su giornali e riviste e solo successivamente furono raccolti in volume la cui prima edizione uscì nel 1837 - “Wakefield” e “Il velo nero del pastore” rivelano in pieno, come ebbe a dire Italo Calvino, quanto Hawthorne “prima di Poe e talvolta meglio di Poe sia stato il grande narratore fantastico degli Stati Uniti d' America”.

Al centro dell'opera di Hawthorne non vi è tanto l'intreccio delle vicende in sé quanto piuttosto l'analisi psicologica, l'introspezione delle coscienze, il dramma intimo dei personaggi e più che definire i personaggi nei loro moventi e nelle loro azioni egli tende a lasciarli senza contorni precisi in un suggestivo alone di vaga indeterminatezza. In tal senso volendo cogliere una prima comune generalizzazione entrambi questi racconti si possono definire come incentrati sulla solitudine dell’uomo quando si trova a dover fare i conti con le parti più oscure e nascoste di sé, dalle quali fugge celandosi agli altri e celandosi anche e soprattutto a se stesso.

Perché i protagonisti dei due racconti: il signor Wakefield e il pastore, reverendo Hooper, non si isoleranno fisicamente diventando degli eremiti, ma si autocostringeranno ad una solitudine esistenziale e relazionale che, di fatto, li separerà dal mondo pur continuando a viverci, in altre parole si autoesulano: “I morti non han maggiori probabilità di rivedere le loro dimore terrene di quante non ne abbia l’autoesule Wakefield…” dice Hawthorne a un certo punto a proposito di Wakefield. Il quale lascia infatti di punto in bianco la dimora coniugale trasferendosi in un appartamento nelle vicinanze della sua abitazione e lì vivrà per vent’anni, osservando o per meglio dire spiando la moglie, ovviamente a insaputa di questa, la quale, nel frattempo, l’ha ormai dato per morto, salvo poi, così come era scomparso fare rientro, in modo inatteso, nella sua legittima abitazione.

Perché Wakefield ha fatto questo? Quale è stata la causa scatenante che lo ha portato ad andarsene di casa e a guardare dal “buco della serratura” la sua casa e la moglie per due decenni? Hawthorne non ce lo dice, noi quindi non lo sappiamo ma, quel che è peggio, non lo sa neanche Wakefield. In tal senso Hawthorne scrive: “Se potessi, vorrei scrivere un in folio su di lui, e non già una dozzina di paginette. Potrei così dimostrare come un influsso che è al di là del nostro controllo mette la mano in ogni nostra azione e tesse le sue conseguenze nella ferrea trama della necessità. Wakefield è stregato, bisogna lasciarlo...a visitare come un fantasma la sua casa, senza una sola volta passarne la soglia….”

Quindi Wakefield è vittima di un non meglio precisato “influsso” che lo rende “stregato” e che ne fa un coatto, costretto ad aggirarsi in casa sua al massimo come un “fantasma”, impedendogli di entrarvi, pur restandogli fedele. E così come di tutto ciò non ne sapeva l’origine non ne sa neanche il perché della successiva continuazione. Wakefield quindi è plasmato dagli eventi, non li dirige, non li indirizza, non è la sua la volontà che lo fa agire: “forze” imperscrutabili agiscono su di lui. E, anche quando incontrerà casualmente per strada la moglie sarà il caso ad avvicinarli per un attimo e, subito dopo, ad allontanarli, senza che nulla accada. Senonché, di tutto ciò, l’unica spiegazione che resta e che Wakefield può darsi è: “Wakefield,Wakefield! Sei un pazzo!”

E Hawthorne aggiunge: “Forse lo era davvero” laddove la pazzia diventa per Wakefield, ma anche per tutti noi, l’unica spiegazione quando non si hanno spiegazioni, da cui deriva come la pazzia stessa, a sua volta, non ha spiegazioni. E qui emerge, in pieno, la solitudine totale di Wakefield, “condannato” a stare da solo pur vivendo in mezzo al consesso umano, ma mai in relazione con esso, avendo la mente e il cuore rivolti a quell’ altrove: la casa, la moglie, con cui, però, non vi è più una relazione reale ma solo, a suo modo, “virtuale”: “Viveva nel trambusto della città,..ma la folla passava senza vederlo; era…sempre accanto alla moglie e al focolare di un tempo, ma non sentiva più né quell’affetto, né quel calore. Il destino senza precedenti di Wakefield era di conservare la sua parte di affetti umani e di interesse alla vita, e di aver perduto ogni influsso su di essi….e allora si diceva: “Tornerò subito!”, senza riflettere che se l’era detto per vent’anni.”

Esistenzialmente e psichicamente Wakefield è quindi un dissociato, un giano bifronte la cui psiche è ostaggio di un oscuro se stesso. Ma un giorno Wakefield così come “inconsciamente” aveva deciso di lasciare la casa e la moglie altrettanto “inconsciamente” decide di farvi rientro e di riunirsi a lei. E così come ci siamo chiesti perché Wakefield ha lasciato la sua abitazione, adesso ci chiediamo perché vi fa rientro. Non certo per un improvviso sussulto di coscienza, né per un sentimento amoroso o un calcolo. Tanto meno Hawthorne ci dice che cosa accade a Wakefield varcata la soglia di casa sua, quindi neanche da come si svolge l’ “accoglienza” di Wakefield possiamo dedurre le motivazioni di Wakefield.

Sicuramente Wakefield al momento del suo rientro è nella condizione di “morto vivente” ma, nel momento in cui Hawthorne ci dice: “Attenzione, Wakefield! Se vuoi andare nella sola casa che ti resta, scendi allora nella tomba!” ci fa sorgere il sospetto che Wakefield stia per diventare un “vivente ormai morto” il quale abbia deciso di ricongiungersi alla casa e alla moglie per morire: la paura di una morte anonima e solitaria come estrema pulsione della vita. Perché uscire dagli schemi, stare ai margini del sistema, affermare se stessi nel mondo affermando la propria individualità è, ci dice Hawthorne, un’impresa titanica. Siamo esseri misteriosi prima di tutto a noi stessi, ma perdere il nostro posto nel mondo ci destina a “diventare, come Wakefield, il reietto dell’Universo”. E quindi così come pulsioni ignote ci portano a compiere gesti inspiegabili, pulsioni altrettanto ignote, ancestrali e istintuali, ci portano a compierne degli altri che forse attengono alla mera sopravvivenza ma di cui, al fondo, neanche di questi siamo veramente consapevoli.

Ancor più foriero di simboli e di segni è “Il velo nero del pastore”, una vicenda cupa e severa, in cui il pastore Hooper appare un giorno ai suoi fedeli portando di fronte alla sua faccia un velo nero che gli nasconde lo sguardo e che incute a tutto il suo gregge profonda soggezione se non un vero e proprio sentimento di paura. Mai il pastore Hooper si toglierà quel velo, in nessuna circostanza e di fronte a nessuno, neanche in punto di morte, finendo per essere sotterrato con il velo il quale sopravviverà anche al pastore dopo che questi sarà morto, sottolinea Hawthorne a fine racconto, dandoci un’ultima bella dose di macabro.

Ovviamente Hawthorne non ci dice che cosa ha portato Hooper a indossare il velo. Ciò ha quindi favorito il sorgere delle più svariate interpretazioni e letture. Il velo come espiazione per un senso di colpa irrisolto. Il velo come simbolo di natura teologica, a indicare l’impossibilità di contemplare oltre l’umano, o come segnale della prossimità a Dio cioè come manifestazione di umiltà verso Dio. Ma affermato che vi è anche l’interpretazione che nega qualsiasi interpretazione, considerando questo racconto un vero e proprio rebus resta, in fondo, più semplicemente la chiave di lettura rinvenibile nello stesso testo allorché Hawthorne fa dire in punto di morte al reverendo Hooper: “Il giorno in cui l’amico mostrerà l’interno del suo cuore all’amico, e l’innamorato alla sua diletta; il giorno in cui l’uomo non rifuggirà all’occhio del suo Creatore e non conserverà come un vergognoso segreto il suo peccato; allora chiamatemi un mostro per il simbolo sotto il quale ho voluto vivere e morire! Ma io mi guardo attorno e su ogni volto non vedo che un velo nero!”

Il velo nero sarebbe quindi un simbolo del nostro nasconderci agli altri ed anche a noi stessi, vivendo così come il pastore Hooper in una estrema solitudine questa nostra condizione. Non aprendoci mai fino in fondo per non svelarci: per codardia, per paura di noi stessi, per il dolore che questo può provocarci ma, tante volte, anche perché non siamo neanche capaci di arrivare fino in fondo a noi stessi. Il pastore Hooper, a suo modo, accollandosene gli oneri e le conseguenze lancia una sfida, punta il dito, sicuramente contro la vigliaccheria e l’ipocrisia umana, ma anche contro la nostra esistenza tenebrosa, costringendoci a farci i conti.

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