Cecità

La proposta di lettura per il mese di maggio è il capolavoro di José Saramago. ()
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In uno degli interventi contenuti ne “Il quaderno”, che raccoglie i testi scritti e pubblicati da Saramago sul suo blog tra il 2008 e il 2009, lo scrittore portoghese mette a confronto, ponendole in una sorta di classifica ideale, tre virtù: la carità, la giustizia e la bontà e, in relazione ad esse, afferma: “Se mi dicessero di disporre in ordine di precedenza la carità, la giustizia e la bontà, metterei al primo posto la bontà, al secondo la giustizia e al terzo la carità. Perché la bontà, da sola, già dispensa la giustizia e la carità, perché la giustizia giusta già contiene in sé sufficiente carità. La carità è ciò che resta quando non c'è bontà né giustizia.” La bontà è quindi per Saramago il valore in assoluto più importante e onnicomprensivo, quello cioè che qualifica più di ogni altro, in senso sia morale che umano, gli uomini.

Al punto che, in un'altra sua dichiarazione - contenuta in una sua intervista - egli la antepone pure all'intelligenza essendo in realtà quest'ultima, secondo lui, il modo più alto in cui si esplicita la bontà: “...la bontà viene addirittura prima dell'intelligenza, o meglio è la forma più alta dell'intelligenza.” Tuttavia, sempre in quell'intervista, Saramago rivela come egli non si nasconda quanto la bontà sia in realtà una virtù assai difficile dal venire messa in pratica, perché “...si manifesta in un periodo storico in cui è palesemente disprezzata, annichilita dal cinismo imperante” mentre, invece, si dovrebbe manifestare “...nella pratica quotidiana” dato che la bontà, così come intesa da Saramago, “...non è animata da nessun pensiero salvifico sull'intera umanità; ma si accontenta di far “lavorare” il proprio minuscolo granello di sabbia. Nel tentativo di recuperare una relazione umana che sia effettivamente tale”.

Saramago, con queste sue affermazioni, ci mette quindi di fronte ad una serie di significati che evidenziano una visione del mondo e una sensibilità basata sul valore supremo della dignità e del rispetto dell'essere umano, praticato con spontanea e disinteressata generosità, in altre parole sul valore dell'attenzione all'altro e agli altri di cui ne denuncia, al tempo stesso, il progressivo svilimento nel contesto del nostro contemporaneo. Ed è proprio di questa morte della bontà e delle conseguenze a cui tale morte può condurre gli esseri umani che Saramago ci parla in “Cecità”, mettendo a nudo il grande tema di cui siamo sempre più partecipi oggi cioè l'affievolirsi e il diradarsi di “una relazione umana che sia effettivamente tale”.

In “Cecità” Saramago prende le mosse dall'immaginare un improvviso e inspiegabile fenomeno che si diffonde ben presto in modo inesorabile. Si tratta di una ignota forma di cecità che colpisce indiscriminatamente, trasmettendosi per contagio e dando luogo ad una vera e propria epidemia. L'anomalia di tale cecità è che essa non ha avuto segnali premonitori in colui che ne è stato la prima vittima, né egli è una persona per qualche aspetto particolare, bensì è una persona qualunque che vive in una città di un paese qualunque, quindi una persona del tutto simile a noi che vive nel “mondo” in cui viviamo noi. Nella più assoluta normalità irrompe quindi questa assoluta anormalità. E ad esasperare la natura sconosciuta di questa malattia vi è il fatto che le vittime pur piombando di fatto nell'oscurità che deriva dal non vedere, in realtà sono come immerse in un candore luminoso dato che quello che appare loro è come un mare di latte, da cui quel nome di “mal bianco” dato alla malattia.

Siamo quindi portati dentro una serie di fatti inquietanti e di stravolgimenti che alimentano un senso di angoscia e di impotenza che condurrà le vittime di tale cecità ad uno stato di vero e proprio panico. E dal diffondersi di quella notte permanente, se pur bianca, causata dal non vedere più si passerà, ben presto, al diffondersi di una vera e propria notte della ragione. Perché, nell'illusione di circoscrivere il contagio, il primo cieco e quelli che con lui erano venuti in contatto, contagiandosi, vengono rinchiusi ed isolati in un ex manicomio, messi di fatto in una condizione di prigionia, nella quale sono abbandonati a se stessi, privi di qualsiasi accudimento e assistenza, salvo l'essere riforniti di cibo; tenuti a distanza, sorvegliati e circondati da soldati pronti ad aprire il fuoco nel caso tentino la fuga. Costoro si troveranno perciò a combattere con le più elementari difficoltà dovute al non vedere e, tali difficoltà, li sprofonderanno molto rapidamente nel più totale abbrutimento, costretti in tutto e per tutto a doversi muovere e a doversi accudire da soli.

Pur cercando di organizzarsi in qualche modo tra loro, la solidarietà si scontrerà con l'individualismo e le individualità di ciascuno e la vita diverrà sempre di più, per tutti, una vera e propria lotta per la sopravvivenza. In primo luogo fisica: ossessivo in tal senso il rapporto col cibo e con l'ansia di non riceverne o di non riceverne a sufficienza, e poi mentale ed emotiva, mancando totalmente appigli per comprendere che cosa sta accadendo loro e che cosa accadrà. “Cecità” si fa ben presto un romanzo disturbante perché nel realismo delle descrizioni del quotidiano di quei ciechi si manifesta tutta la disumanità, umiliante e feroce, che deriva da quella situazione. La quale genera raccapriccio sia in relazione alle condizioni materiali di vita a cui i ciechi devono far fronte, sia all'abominio di quelle autorità che hanno deciso così, affermando cioè l'emarginazione e l'indifferenza invece che il farsi carico di quelle persone ed aiutarle.

“Cecità” si incanala quindi sempre di più tra la tragedia grottesca e la favola apocalittica, restando Saramago attento a dosare il dramma e la disperazione che dalle vicende narrate emana, con l'irrealtà e i parossismi che una vicenda a suo modo “fantastica” e surreale come questa può ispirare. Ma questo uso che Saramago fa di una ambientazione narrativa di tipo “fantastico” appare, con tutta evidenza, funzionale alla rappresentazione allegorica del reale che ci circonda, alla costruzione di parabole che parlano del nostro mondo, alla evocazione di metafore che ci riguardano, attraverso cui veicolare quella sua visione etica incentrata su: umanità, giustizia, rispetto, dignità, bontà di cui si diceva. L'immaginazione di Saramago, sempre impregnata di un' amara e sofferta ironia, finisce infatti per ricondurre ad un senso di profonda compassione per coloro che sono vittime di ciò che egli crea e narra, trasmettendoci, a partire da ciò, una compassione più generale per gli uomini nel loro insieme e per il loro destino.

Quella che Saramago crea in “Cecità” è quindi una sorta di realtà virtuale basata sull'invenzione di un'ipotesi: mettiamo che accada che prima singoli individui, poi piccoli gruppi, infine tutti diventino ciechi, che cosa succederebbe. L'esito che Saramago immagina è spietato perché le dinamiche e i comportamenti che egli, nel suo analitico descrittivismo, fa scaturire, prima fra sani e malati, poi fra questi tra loro, rimanda a una visione che prefigura il prevalere della malvagità e della crudeltà, dove la cecità fisica finisce per diventare disvelatrice di un'assoluta cecità verso l'altro. Una cecità morale e umana che porta e riporta tutto e tutti ad una vera e propria barbarie. L'excursus delle vicende assume infatti una progressione via via sempre più devastante e catastrofica. Al primo gruppo di ciechi internati faranno infatti seguito ondate successive e crescenti di altri ciechi e, tra lotte per il cibo e difficoltà di convivenza che si muteranno in esplicite ostilità, assistiamo all'esplodere della natura umana in tutta la sua abiezione.

Nelle camerate di quel luogo dove i ciechi sono rinchiusi, divenute orribilmente sovraffollate, malsane e putride, scoppiano tumulti, aggressioni, prese del potere da parte di alcuni sugli altri; delle vere e proprie violenze fisiche come gli stupri che quel gruppo di uomini ciechi, impossessatisi prepotentemente del dominio assoluto, perpetrerà sulle donne cieche. E in un crescendo di violenza e di violenze dalle quali nessuno sarà escluso anche chi le agirà a “fin di bene” - affermandosi in tal modo una regressione collettiva a un mondo ferino e brutale – si giungerà ad una catarsi della violenza, sotto forma di un incendio, a suo modo liberatorio, che restituirà, a chi uscirà vivo da quell'incendio, la libertà di potersi allontanare da quel luogo dato che, come costoro scopriranno ben presto, ormai all'esterno tutti sono diventati ciechi e anche la guarnigione che lì stazionava si è dissolta.

L' azione da qui in poi torna incentrarsi e a focalizzarsi su quel primo gruppo di ciechi che erano stati internati, tra i quali si era formato e si era mantenuto un legame basato su un reciproco istinto di sopravvivenza che, sopravvissuti all'incendio, si allontanano da lì insieme. In realtà quel gruppo è tenuto insieme e reso coeso dall'unico personaggio non cieco presente nel romanzo: la moglie di quell'oculista che aveva visitato il primo cieco ed era divenuto cieco anch'egli e la cui moglie, per seguirlo e restare con lui, si era finta anch'essa cieca pur non essendolo e tale aveva continuato ad essere, restando singolarmente immune dal contagio, ma non rivelando ciò a nessuno, tranne che al marito, per evitare di divenire possibile ostaggio degli altri ciechi. Svelata a questo punto anche agli altri la sua non cecità essa assumerà la guida del gruppo rappresentando di fatto il testimone, pienamente partecipe, degli eventi. Colei che, “costretta” a vedere, svela ciò che accade e si fa tramite del mondo, facendo vedere a chi è con lei, ma anche a noi, quella realtà. Ma incarnando anche, in un mondo in cui la dignità e il rispetto non hanno più salvezza, quella pietà verso gli altri e quel prodigarsi generoso in altre parole quella bontà di cui si rivelerà coraggiosamente capace. Nella consapevolezza della cecità interiore degli uomini divenuta imperante che ella ben comprenderà, affermata nella famosa frase che Saramago le farà pronunciare: “Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono”. ( Si noti l'anomala punteggiatura adottata da Saramago, incentrata sull'uso delle virgole, volta a creare un flusso continuo nella narrazione).

Orientato dagli occhi di questa donna e dalle sue fattive e concrete intuizioni ed iniziative quel gruppetto vagherà tra le devastazioni umane e materiali di quel mondo in cui ormai vige solo la legge della forza, con la città in totale abbandono preda di saccheggi e gruppi di ciechi che si aggirano come esseri inselvatichiti occupando le case altrui e lottando l'uno contro l'altro per assicurarsi il cibo. Quel piccolo gruppo e quella donna che non si è lasciata accecare dall'egoismo e che ha sempre accettato la realtà anche quando ne derivava dolore e frustrazione, sapendo elaborare reazioni attente sia verso di sé che verso gli altri, tenendo sempre vivi la ragione ma anche i sentimenti, piano piano si abitueranno ad agire come una comunità, ricostituendo, senza accorgersene, un senso di comunità fondato proprio su quel binomio ragione-sentimento.

E tuttavia in quel mondo vige il dominio della cecità e anche Dio è ormai cieco come Saramago fa intendere in quella metafora della chiesa al cui interno anche il Cristo sul crocefisso e le statue dei santi sono state bendate da una mano ignota e quindi non vedono. Perciò chi anche tenti di salvarsi o riesca a salvarsi in un mondo così la sua resterà lo stesso un'esistenza estrema e terribile, verso cui non si finirebbe che provare un'altra volta una grande compassione. Ma ogni compassione contiene in sé un germe di di identificazione ed è per questo che “l'esperimento” di Saramago ci turba, perché ci rappresenta. Se gli esseri umani sono per definizione esseri sociali quindi solidali in quanto in relazione tra loro, che ne è della loro stessa essenza ed esistenza nel momento in cui quel loro stare in relazione scompare dal loro orizzonte.

Saramago con “Cecità” lancia un monito severo e visionario richiamando alla responsabilità, intesa come responsabilità verso noi stessi. Perché nello smarrirsi dell'assunzione di responsabilità verso l'altro e verso gli altri in realtà smarriamo la responsabilità verso tutti noi. Ed è proprio il perdersi e lo svanire del noi - un noi aperto e inclusivo come quello che quel gruppo alla fine metterà in atto al suo interno ma anche verso l'esterno - ciò che più di ogni altra cosa accade in “Cecità” e che mina ed erode dall'interno tutte le forme della relazione umana così come l'apologo di Saramago ci mostra senza pietà. Solo fondandosi all'interno di un noi è dato vivere e nel momento in cui tale noi si perde di vista l'istinto è a riaffermare la legge del più forte, in una lotta di tutti contro tutti. “E' di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria” fa dire Saramago ad uno dei personaggi e nella crudezza di ciò affonda la constatazione di ciò di cui l'uomo lasciato a se stesso sia capace.

Come fosse stata “...davvero una storia dell'altro mondo quella in cui si era detto, Sono cieco”, i ciechi altrettanto inspiegabilmente e altrettanto improvvisamente torneranno a vedere. Tutto alla fine sembra essere stato solo un gran brutto sogno, il sogno di una cecità, ma ci si chiede se in fondo Saramago non avesse già visto che in quella cecità - la cecità di coloro che “pur vedendo non vedono” - ci siamo già finiti anche noi senza accorgercene.

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