Aspettando i barbari

Il romanzo di John Maxwell Coetzee, premio Nobel per la letteratura 2003, è la proposta di lettura per il mese di aprile. ()
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Se è vero che la nostra “civiltà” è protesa a rendere tutti sempre più simili e a ridurre l'alterità, di qualunque tipo essa sia, tendendo a razionalizzare e omologare il mondo, “Aspettando i barbari” è non solo un romanzo che affronta l'esistenza di quella alterità, ma ne rivela tutta la sua irriducibilità e la sua inafferrabilità. Le vicende narrate in “Aspettando i barbari” sono la metafora di un mondo che combatte l'alterità e cerca di sottometterla considerandola il proprio nemico. Anzi crea l'Altro come nemico, lo istituisce come tale, in quanto lo trasforma da quello che esso è e cioè il diverso da sé, in un nemico, proprio perché e solo perché è diverso da sé. E per sancire ciò attua una violenza che, nel contenere quella fisica, ne contiene una ancora più profonda: quella dell'umiliazione e dell'offesa. E' infatti umiliando e offendendo l'Altro in quanto essere umano che se ne qualifica la sua esistenza come Altro e lo si identifica come proprio nemico. Ma l'Altro, a sua volta, come accade in “Aspettando i barbari”, può essere violato e umiliato ma la sua alterità resta impenetrabile e imprendibile perché gli appartiene e tale distanza e differenza è ineliminabile.

Pubblicato nel 1980 “Aspettando i barbari” è, in ordine cronologico, il terzo romanzo di J.M. Coetzee ma, in realtà, il primo romanzo dello scrittore sudafricano ad avere ricevuto attenzioni e riconoscimenti internazionali. Sebbene in “Aspettando i barbari” sia possibile riscontrare riferimenti impliciti alla realtà del Sudafrica di quegli anni – si tenga presente che erano quelli anni in cui in Sudafrica vigeva ancora l'apartheid e i conflitti interrazziali laceravano il Paese – tuttavia il modo in cui sono affrontate le vicende narrate non solo non ha espliciti riferimenti storico-geografici ma utilizza un approccio squisitamente letterario, cioè fortemente allegorico, per affrontare un tema che, in realtà, è assai vasto. Perché “Aspettando i barbari” ci pone di fronte al tema della disumanizzazione dell'Altro, della sua negazione come essere umano, perché “colpevole” di essere diverso. Non più quindi altro da sé in ragione della diversa identità ma in ragione di un diverso grado di umanità a cui il diverso da sé va destinato e relegato.

“Aspettando i barbari” si svolge lungo la frontiera di un fantomatico Impero ai cui confini si ritiene stiano per premere i barbari così definiti per il loro essere popolazioni estranee a coloro che fanno parte dell'Impero. Eppure in quella città fortezza, posta al limite remoto di quel confine, dove viene inviato dalla capitale il sinistro colonnello Joll della potente e spietata Terza Divisione, con il compito di avviare una campagna contro i barbari, la vita si svolge pacificamente. Il Magistrato – che è il protagonista del romanzo – funzionario dell'Impero che lì ne amministra la giustizia e lo rappresenta manifesta da subito a Joll tutte le sue perplessità rispetto a quelle ipotetiche minacce di cui non vi è alcun riscontro. E già da questo contrasto appare quella lacerazione, che attraversa tutto il romanzo, tra una concezione dell'esistenza quale quella del Magistrato basata su un sostanziale rispetto per ciò che lo circonda e la violenza, cupa e indifferente di Joll, emblema di un potere imperscrutabile, lontano e senza volto, orientato al dominio, sordo e cieco a qualsiasi cosa che non sia la propria affermazione.

Peraltro il Magistrato non si è mai posto nella sua vita particolari problemi di coscienza, né particolari dubbi sulla sua fedeltà all'Impero, anche perché in quel “pigro territorio di frontiera” nulla incrina la tranquilla routine della sua vita ed egli sa quanto siano ricorrenti e infondate quelle “voci” che si levano sulle minacce che proverrebbero dai barbari. I quali sarebbero nient'altro che quegli indigeni che vivono in tribù sparse sul territorio esterno alla frontiera, persone sostanzialmente innocue e pacifiche, estranee a qualsiasi intento aggressivo. Vi è perciò un relativismo del termine barbari che, nel definire quello che è un diverso modo di vivere, diventa, per chi lo vuole fare diventare tale, sinonimo di minaccia e quindi di nemico. I barbari in sé non fanno paura ma, attraverso di essi si crea la paura, perché soltanto in opposizione a un Altro percepito come pericoloso e violento chi è pericoloso e violento può affermare se stesso.

Caso vuole che in quel momento siano reclusi nella fortezza, accusati di un presunto furto, due prigionieri - “Normalmente non avremmo avuto barbari da mostrarle” dice il Magistrato a Joll - e Joll non si fa sfuggire l'occasione. Interroga “ a modo suo” i due prigionieri e uno muore a seguito dell'interrogatorio per le torture subite e, all'altro, sfinito da quelle torture, Joll estorce una confessione fasulla facendogli ammettere un fantomatico furto e, quel che è peggio, l'intenzione della sua tribù di “muovere guerra all' Impero”. Anche la parola verità rivela quindi tutto il suo relativismo, perché c'è la vera verità, c'è la verità estorta e c'è la verità di Joll che per Joll non è nient'altro che il dolore fatto provare all'Altro: “Il dolore è verità, tutto il resto è soggetto al dubbio”, dice Joll. Laddove questa verità coincide con la degradazione, con la negazione dell'Altro, con la sua umiliazione e con la violenza che gli viene fatta subire. E il Magistrato comincia a comprendere che egli è, anche non volendo e anche non essendolo, un complice di tutto ciò: “Non mi sfugge che l'inquisitore può avere due maschere, parlare con due voci diverse, una dura e l'altra suadente”, dice a se stesso. Primo apparire di quell'interrogarsi sulla verità delle cose che lo costringerà a confrontarsi con la realtà della violenza, del pregiudizio, dell'identità dell' Altro e di se stesso, ma anche della cosiddetta civiltà.

Intanto Joll, a seguito di quella confessione, fa quello che si riprometteva sin dall'inizio: “...un'incursione lampo fra i nomadi a prendere altri prigionieri”. La fortezza sarà riempita da un insieme di uomini e donne inermi, sprofondati ben presto nell'abulia di quella cattività, con tutta evidenza estranei ad ogni tumulto o insurrezione. Ripartito Joll per la capitale con il suo bottino di “verità”, il Magistrato darà ordine di lasciare andare quella povera gente e i sopravvissuti a quelle torture se ne andranno tutti tranne una ragazza che ha i piedi feriti e la vista rovinata per ciò che le hanno fatto. Il Magistrato la nota perché la vede fare l'elemosina e ciò alimenta in lui quel senso di vergogna per tutto ciò che gli sta accadendo intorno: la convincerà a seguirlo e la porterà con sé liberandola e liberandosi almeno da quella vergogna: “L'ho liberata dalla vergogna di mendicare” dirà. Ma in questa vergogna che il Magistrato sente per l'umiliazione fatta a coloro che ne sono vittime e che fa crescere in lui il senso di una colpa che lo metterà in conflitto con se stesso e con il suo mondo vi è una consapevolezza più profonda: quella che esiste una storia umana, un passato. In altre parole prima della “civiltà” che ha civilizzato il mondo vi è la civiltà umana come storia degli uomini, e le altre culture e gli altri popoli non possono essere negati come nell'Impero si vorrebbe fare.

Consapevole del suo isolamento e della sua diversità ma altresì conscio della realtà e complessità delle cose quella vergogna diventa il segno di una sensibilità che tiene il Magistrato in una sorta di zona intermedia combattuto fra il dissociarsi dall'Impero e, cosa ancora più difficile, mettersi dalla parte dei barbari. Ma l'incontro con quella donna aprirà altri e nuovi interrogativi rivelandogli quanto l'Altro resti comunque tale. Perché se la cieca violenza di Joll può violentare l'alterità, assai più difficile è entrare nell'alterità dell'Altro. Il Magistrato decide di curare le ferite e le piaghe della ragazza e la porta nella sua casa. Ne nasce un rapporto fatto di un ambiguo erotismo: la massaggia, la lava, la accarezza e la ragazza, a sua volta, non si sottrae a quelle cure, a suo modo non si nega. Eppure il Magistrato, in quell'intimità pressoché totale che ha con la ragazza, non riesce ad entrare realmente in intimità con lei, c'è una distanza che non riesce a colmare. Dietro quella sua difficoltà a penetrarla, che si manifesta come difficoltà ad avere un rapporto sessuale con lei, il Magistrato percepisce un senso di estraneità perché è proprio la ragazza come persona che egli non riesce a penetrare. Ella si offre, ma si offre passivamente alle sue cure, non si lascia, per così dire, addomesticare, mettendo a nudo come in quelle cure, agite unilateralmente dal Magistrato, si annidi, di fatto, la riproposizione di una dominazione.

L'illusione di riparare al male fattole dai suoi torturatori riscattandola così dall'umiliazione e sottraendosi egli dal suo senso di colpa non solo non si realizza ma anche il Magistrato, nel tentativo che egli fa di entrare nell'intimità di lei finisce, in definitiva, per violarla, cercando di penetrare un'alterità che è e gli resta estranea. Ed è questa distanza e questa differenza che la ragazza afferma e difende con il suo comportamento. Lui appartiene al mondo di coloro che l'hanno torturata, appartiene ad un altro mondo, un mondo a lei estraneo e quindi la loro resta una relazione comunque diseguale. E anche lui si rende conto che quell'alterità resterà per lui un segreto. Decide quindi di partire con lei per restituirla alla sua gente pensando che restituendo l' Altro al suo proprio mondo, restituendogli l'integrità, forse sarà possibile incontrarsi. Ma quando raggiunto un avamposto della sua tribù le propone di tornare con lui in città, rendendola quindi “libera” di scegliere, ella opporrà un ultimo e definitivo diniego, scegliendo di stare nel suo mondo.

Sono così le differenze, le diversità, la sfiducia a restare prepotentemente in primo piano. Quel ruolo di “ponte” che il Magistrato, riportando la ragazza tra la sua gente si è trovato a svolgere appare a lui stesso in tutta la sua ipocrisia, facendone, di fronte a quella gente a cui la ragazza appartiene, che lo tratterà con sprezzante freddezza, quello che, lui stesso, sente di essere: “Un intermediario insomma. Uno sciacallo dell'Impero, nei panni dell' agnello”, finendo per venirsi a trovare in una terra di nessuno, né di qua né di là. La sua fantasia di trasformare la relazione con la ragazza in una relazione tra pari fallisce perché quella relazione era – e non poteva essere altrimenti – una relazione di potere. Ma in quella relazione si era anche introdotto un sentimento che l'aveva attraversata, un sentimento d'amore che in sé era autentico e reciproco, eppure impossibile da realizzare perché richiedeva di oltrepassare barriere invalicabili.

Quello che egli aveva inconsapevolmente ma umanamente tentato era di fondare l'incontro con l' Altro al di fuori della storia, al di là cioè del trauma creato e imposto dall'Impero che è il trauma imposto da una “civilizzazione” che non è la storia di tutti gli uomini ma fatta da alcuni su altri e che si ritorce contro gli uomini perché si fonda sulla lotta e sul predominio. E il Magistrato verrà anche lui trascinato in questa lotta, divenendone parte e incarnando una ribellione a un potere e a una violenza di cui sente sempre di più su di sé il peso e la colpa e del cui ingranaggio diverrà lui stesso vittima. Ritornato in città verrà accusato di avere complottato con il nemico a seguito di quella spedizione nei territori dei barbari fatta per riportare la ragazza dai suoi venendo, per questo, imprigionato. Anche a lui toccherà l'esperienza dell'umiliazione e dell'offesa al suo corpo e alla sua dignità che lo assimilerà, fino in fondo e né più né meno, che a un barbaro.

Tutto ciò fino a quel “No” urlato apertamente, senza più reticenze, allorquando sfuggito ai suoi sorveglianti si troverà ad assistere, nel cortile della fortezza, a quella scena in cui Joll tornato da una nuova spedizione, in cui ha fatto un'altra razzia di prigionieri, sta per prendere letteralmente a martellate un prigioniero, dopo aver scritto la parola “NEMICO” sulla schiena dei prigionieri, mentre la folla lì assiepata assiste eccitata a quello spettacolo. Quel “No” sarà in realtà per il Magistrato il suo modo, unico ed estremo per salvarsi: “Non posso salvare i prigionieri, quindi devo salvare me stesso. E che alla fine si dica che in questo remoto avamposto dell'Impero è esistito un uomo che, nel profondo del cuore, non era un barbaro.” E il magistrato pagherà venendo messo al bando e ridotto a un relitto umano, per aver voluto con quel “No” affermare la sua coscienza e la sua dignità. Egli, ancora una volta, ha cercato di abolire le differenze tra Noi e Loro, di superare la disumanizzazione, di ristabilire l'integrità umana: “Nemmeno con una bestia si usa il martello”, aveva gridato di fronte a tutti.

Perché è questa la vera alterità in gioco e cioè quella tra umano e disumano, laddove siamo Noi che diventiamo altro da noi stessi nel momento in cui agiamo la disumanizzazione dell'Altro, che diventiamo il vero Altro, il vero diverso, i veri barbari. I barbari non arriveranno mai, le spedizioni militari saranno decimate dal freddo e dalla fame e si ritireranno, i soldati lasceranno la guarnigione e la città perpetrando saccheggi nelle case lasciate vuote da chi era fuggito pensando all'imminente arrivo dei barbari. Tra la popolazione rimasta monterà la rabbia per quei comportamenti da parte di chi la doveva proteggere e per essere stata lasciata a se stessa con le sue paure. Una sorta di pace cala sulla narrazione, nel suo vagabondare di casa in casa, per ottenere un po' di cibo, il vecchio Magistrato riprende contatto con le persone, ricostituisce un po' di quell'umanità perduta, ritorna ad essere riconosciuto e ascoltato. Ma non c'è nulla di definitivo, di lineare, la sensazione è che tutto possa riproporsi di nuovo. Leggere quanto accaduto e trarne delle conclusioni per il Magistrato non sarà facile: “Qualcosa mi ha guardato dritto in faccia e io ancora non la vedo” dirà nell'ultimo dei suoi pensieri Ribadendosi quella irresolubile e forse irrisolvibile, per lui, posizione di chi non riesce a trovare un posto, una parte in cui stare, in fondo costretto, quasi condannato, a quella solitudine nella quale ha sin lì vissuto quelle vicende e in cui ha vissuto la sua vita. Ma a noi che leggiamo questo libro ci mostra quanto sia difficile incontrare l'Altro ma anche quanto sia facile gettare su di esso quella disumanità che rende capaci di non essere più pienamente umani.

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