Il bruciacadaveri

Il romanzo capolavoro di Ladislav Fuks è la proposta di lettura per il mese di maggio per il ciclo “Libri d’autore da riscoprire”. ()
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“Il bruciacadaveri” è il secondo romanzo di Ladislav Fuks, uno dei massimi scrittori cechi del secondo Novecento. Pubblicato a Praga nel '67, apparve in Italia nel '72 nei Coralli dell'Einaudi. Dopo quell'edizione, peraltro non più ristampata, nel 2019 la casa editrice Miraggi edizioni, all'interno della sua collana di letteratura ceca, ne ha pubblicato una nuova edizione.
“Il bruciacadaveri” è da considerare a tutti gli effetti un capolavoro della letteratura del '900. Ambientato a Praga nel 1938-39 ha, a prima vista, le caratteristiche di una storia nera. Non foss'altro perché Karel Kopfrkingl, il protagonista, è impiegato al Crematorio di Praga e non solo è un consumato esperto delle pratiche crematorie ma ne è un fervente paladino.
Non perde infatti occasione per sottolinearne i vantaggi e i pregi: la rapidità e asetticità del processo, la sua non aggressività, in quanto la cremazione non intacca i corpi in modo diretto col fuoco ma agisce per effetto del solo calore, insomma, come dire, non è invasiva. E poi l’intrinseca democraticità della cremazione che ci riporta tutti, indifferenziatamente, alla nostra originaria condizione di polvere da cui proveniamo, senza lasciare in giro sgradevoli tracce dei nostri corpi ma lasciando libera la nostra anima di andarsene dove e come vuole perché Karel crede pure, bontà sua, nella reincarnazione: legge da sempre lo stesso libro, un volume sul Tibet.Ma non si deve credere che per questa sua passione mortuaria oltre che abnegazione professionale Karel sia un sinistro e lugubre figuro, nossignore, al contrario è un amorevole anzi, diciamolo, un zuccheroso e mellifluo signore.

“Tenera” è la parola con cui inizia “Il bruciacadaveri” ed è per l’appunto Karel che la pronuncia rivolgendola alla moglie Lakmè che, in realtà, si chiama Marie ma Karel ha deciso che si chiama Lakmè, così come lui che si chiama Karel si è ridenominato Roman. E alla moglie, alla figlia e pure alla gatta non risparmia vezzosi aggettivi quali: “maliarda”, “eterea”, “celeste”, “soave”, “diletta”, “purissima” e il suddetto “tenera”. “Sono romantico” dice, ”ed amo la bellezza”, non si fosse capito. Colma i familiari di regalini, li porta spesso a spasso, stravede per la propria casa che ama arricchire di ninnoli e oggettini, teche, quadri e quadretti tra cui spiccano: la tabella degli orari delle cremazioni nonché una nera Drasophilia funebris. E nella sua smania di ribattezzare tutto pure il quadro col faccione del presidente del Guatemala diventa per Karel il ritratto di un famoso ministro delle pensioni francese, anche se sotto, nel quadro, c’è scritto Presidente del Guatemala. Insomma tutto ha un ordine e un senso per Karel, il suo. Ma tant’è, cosa volete che sia, in fondo in fondo, nel suo intimo, Karel è un buono: “Non dobbiamo far torto a nessuno, nemmeno col pensiero” dice, e poi non ha vizi e debolezze di sorta, è un premuroso sostenitore del matrimonio, del suo matrimonio: “Non c’è matrimonio, mia celeste, che sia così bello e felice come il nostro”, dice alla moglie, salvo poi andare regolarmente a farsi vedere dal Dottor Bettelheim, esperto in malattie veneree, suo vicino di casa, di nascosto dalla moglie, chissà come mai?

Karel ha anche un amico, un certo Willie Reinke, un fervente e accanito filonazista (la storia si svolge durante l’occupazione tedesca) il quale, in modo pomposo e borioso, quale egli è, dipinge attrattivamente al nostro Karel i vantaggi e i piaceri che lui, Karel, potrebbe avere aderendo al partito nazista: nomina certa alla direzione del crematorio, anche perché di un esperto come lui c’è un crescente bisogno, e poi la possibilità di frequentare belle donne, l’ingresso garantito allo sfarzesco Casinò tedesco di Praga e in generale l’essere ben visto e ben accolto tra i “nuovi padroni”. Karel non è un vero e proprio ambizioso però capisce che qui c’è un nuovo ordine con cui fare i conti e siccome all’ordine, alle forme, alle regole lui ci tiene, alle profferte di Reinke ci fa più di un pensierino. Ma c’è un problema, la moglie e quindi anche i figli (ne ha due) hanno sangue ebreo e questo è un neo grave gli dice l’amico Willie, che va affrontato, pena il non accesso ai benefit nazisti. E quale miglior modo per affrontarlo ma, ovviamente, facendo fuori moglie e figli: perché non soffrano, poverini. E così porta il figlio in visita al crematorio, lo spranga, lo infila in una bara con un altro morto già pronto per la prossima cremazione, di cui quindi beneficerà anche il figlio e, non visto, si allontana andando, come se niente fosse, a denunciare la scomparsa del figlio.

Per far scomparire la mite e inconsapevole moglie organizza un’impiccagione–finto suicidio, ne denunzia irreprensibilmente il fatto alle autorità dando ovviamente il benestare per la cremazione dell’amata Lakmè. La figlia si salverà solo perché a Karel fa visita un monaco tibetano che, venuto direttamente dal Tibet, gli dice che lui, Karel, è il nuovo Dalai Lama quello che “Budda ha scelto e in cui si è reincarnato”. Il finale è ancor più grottescamente tragico e lo risparmio. Adesso viene da chiedersi ma in conclusione chi è veramente Karel Kopfrkingl? Perché Fuks ha realizzato non solo un’opera geniale per il suo macabro surrealismo grottesco ma, soprattutto, ha individuato e sviluppato un modello che si basa sull’ idea di forma. Se infatti rileggiamo tutta la storia e il modo in cui vengono raccontate le cose ci accorgiamo che tutto in Karel risponde, deve rispondere, al rispetto delle forme. Karel fa tutto quello che fa non perché c’è una relazione che egli instaura con le cose e con gli altri, ma perché tutto deve rientrare in un suo schema formale.

Tutto deve corrispondere ad una forma prestabilita e inalterabile: si pensi al delirio di cambiare i nomi propri o di cambiare i nomi agli oggetti. E tutto ciò che può alterare questa forma: in primis proprio la realtà, quella vera, va eliminato. Anche l’adesione al nazismo diventa per Karel un problema di adesione alla forma nazismo, non al nazismo in sé. Ma questo dominio della forma in Karel Kopfrkingl è il dominio di una forma vuota di contenuti, è mera apparenza, è il nulla. E’ una cosa già in sé defunta, è un’iterazione della morte che così come nella catena di montaggio del crematorio si ripete sistematicamente negli atti, nei gesti e nelle parole da inutile idiota di Karel. Per Karel Kopfrkingl tutta la vita si consuma nella forma e nelle forme e come tale si nega la vita, in quanto tutto in lui si riduce ad un insieme di pratiche meticolose, ordinate, coerenti, perbene ma inutili. Pratiche solo formali dove anche la morte è ridotta a procedura asettica ed “igienica”. E adesso si insinua una domanda, ma non è forse che il nazismo è stato, in ultima istanza, un mostruoso, orripilante, agghiacciante tentativo di affermazione del dominio della forma? Se infatti affermiamo, assumendo lo schema de “Il bruciacadaveri”, che la forma nel momento in cui si nega di contenuti e di senso e perciò si sclerotizza in sé stessa, traducendosi in cosa morta, nega la vita, altrettanto possiamo dire del nazismo, laddove esso si afferma come delirio onnipotente che vuole mettere ordine, il suo ordine, nel mondo ripulendolo da tutto ciò che è diverso da sé e, pertanto, imponendo la sua forma che non consente alcun grado di libertà, alcuna possibile tolleranza in più o in meno rispetto al modello fissato dalla forma nazismo. E’ evidente che al di là delle volontà soggettive il dominio della forma diventa assolutamente prevalente e ovviamente aberrante e per imporsi ha bisogno di affermarsi a scapito della vita la quale invece presuppone diversità, eterogeneità, differenze, movimento invece che fissità, rigidità, iconicità, ripetitività, propri della forma fine a se stessa e, peraltro, tipici del nazismo.

In questa ipotesi il nazismo assume, in conclusione, le sembianze di un’orrenda gestalt autoreferenziale e autoriproducentesi in quanto pura espressione solo di se stessa. Ed è forse questa la grande metafora contenuta ne “Il bruciacadaveri” che ci illumina con un sinistro bagliore che ci arriva direttamente dal forno crematorio della Storia.

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