Il trentesimo anno

La proposta di lettura per il mese di marzo nel ciclo “Racconti al femminile” è la raccolta di racconti di Ingeborg Bachmann. ()
Il trentesimo anno immagine
Vi è in tutta l'opera della grande poetessa e scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann (Klagenfurt 1926 – Roma 1973) - e nei racconti che compongono “Il trentesimo anno” (1961) in modo palese - un'esplicita istanza utopica rivolta verso una vera e propria “rifondazione” del mondo: “La libertà che intendo io: il permesso...di rifondare il mondo ex novo e di dargli un nuovo ordine”. In questa affermazione, che è riportata nel diario del protagonista del racconto che dà il titolo alla raccolta, è sintetizzato il tema intorno a cui ruota, nel suo insieme, “Il trentesimo anno”. Perchè se si prende il mondo così com'è non vi è alcuna salvezza: “E che tutti temono la morte che è l'unica salvezza possibile contro quell'atroce offesa che è la vita” afferma il protagonista del racconto. Essendo che la violenza, insita in questa affermazione, è, per lui, l'”inevitabile” conseguenza della violenza insita nel mondo e fra gli uomini: “...avevo imparato che gli uomini ci usano violenza, che anche noi usiamo loro violenza e che vi sono momenti in cui ci prende lo sconforto per via delle ferite patite – che ognuno di noi viene offeso dagli altri fino alla morte”. Ed è contro questa “pena di vivere” che i protagonisti dei diversi racconti lottano, conducendo una battaglia prima di tutto con se stessi per cercare di aprirsi un “varco” che è già esso stesso un traguardo.

I progetti di trasformazione e le mutazioni esistenziali che qui vengono messe in gioco, al di là degli esiti, genereranno infatti, nelle vite dei personaggi, comunque dei cambiamenti evolutivi. C'è in questi racconti alla fine una rinascita o almeno ne è data la possibilità. La parabola è quella della disillusione ma non quella dell'autodistruzione. D'altro canto qui si gioca una partita ambiziosa: fare i conti con l'esistente per scardinarlo e aprirsi ad una nuova era in cui vige una nuova lingua. E una nuova lingua, intesa come un nuovo sistema di segni e di simboli per decodificare il mondo esterno ma, soprattutto, il proprio mondo interno alla fine resta e si insedia. Perchè se nessuno arriverà a realizzare il progetto di “rifondazione” del mondo tuttavia, come accade al protagonista de “Il trentesimo anno” , se prima “nella sua mente non vi era che un fluttuare di segni di interpunzione rivolti al mondo”, adesso - “Presto compirà trent'anni” - si accorge che “gli venivano in mente le prime frasi in cui si presentava il mondo”.Ed è questa tensione che pulsa in questi racconti e che lavora nelle vite dei suoi protagonisti.

Questo è particolarmente vero in quattro dei sette racconti e cioè: “Il trentesimo anno”, “Tutto”, “A un passo da Gomorra”, “Un Wildermuth” in cui i protagonisti si trovano di fronte ad un'istanza di trasformazione che prende sempre le mosse da una “caduta” che è o una presa di coscienza su di sé o l'accadere di un evento che irrompe nelle loro vite. In tal senso tale “caduta” non va interpretata in senso negativo o positivo ma come il determinarsi di un nuovo stato o di una nuova consapevolezza, una sorta di momento di ingresso o di passaggio da uno stadio all'altro della vita. Essa però costringe e indirizza i protagonisti a confrontarsi con dimensioni “antagoniste” rispetto alla realtà così com'è, le quali si insediano dentro di loro con una prepotenza tale che apre in loro squarci che non possono essere lasciati a se stessi. Tali dimensioni si configurano come speranze, aspirazioni, desideri, aspettative, utopiche e/o sovversive, da cui ci si sente attratti e che si vorrebbero affermare e imporre al fine di affermare e imporre un nuovo sé e un nuovo mondo. Ma esse non saranno mai raggiunte così come si vorrebbe e la loro irrealizzazione che ne decreta il fallimento tuttavia lascia aperto un “varco” attraverso cui incamminarsi. Abbiamo quindi in questi racconti tre momenti chiave: la “caduta” che attiva e genera il processo; la dimensione “antagonista” rispetto al reale, che detta l'azione e il fine ma contro cui ci si infrange costituendosi come illusione; e il “varco” che è ricomposizione e sintesi della scissione fra realtà e illusione e ripartenza ad un punto comunque nuovo di consapevolezza. Di ciò se ne ha un' esemplare applicazione nel racconto “Il trentesimo anno” il cui protagonista è un giovane alle soglie dei trent'anni che una mattina si sveglia “e, tutt' a un tratto, rimane lì steso senza riuscire ad alzarsi”. La sua “caduta” ha origine proprio da quel suo scoprire all'improvviso che “gli sembra di non avere più diritto a farsi passare per giovane”. Non più capace di essere quello che era, ma neanche ancora capace di sapere quello che vuole essere egli opera, nell'arco dei 12 mesi che lo porteranno al compimento del trentesimo anno, un viaggio esistenziale e fisico alla ricerca di sé, che si configurerà come una sequenza di fughe da esperienze e luoghi (lascia Vienna per Roma, poi ritorna a Vienna, poi di nuovo a Roma) in perenne conflitto fra illusioni e realtà.

La tensione qui è tutta giocata fra un'aspirazione di libertà portata ai limiti dell'assoluto e l'impossibilità, all'estremo opposto, di riuscire ad insediarsi in alcuna realtà, scoprendo che la prima di tutte le illusioni con cui dovrà fare i conti è proprio quella della libertà. L'elemento “antagonista” che farà per lui da molla ma anche contro cui impatterà è quello di immettere quel suo bisogno di “assoluto”, estraneo a qualsiasi compromesso, all'interno di un disegno di vera e propria reinvenzione della Storia e in un suo reinizio: “Il grande sciopero: l'arresto istantaneo del vecchio mondo. La rinuncia a lavorare e a pensare in funzione di questo vecchio mondo. Le dimissioni della Storia, non a favore dell'anarchia, ma di una rifondazione” scrive nel suo diario. Ma questo progetto fallirà, infrangendosi contro tutta una serie di dati di realtà che pregiudicheranno, in primo luogo, l'idea stessa di autosufficienza derivante da un'idea assoluta di eterna giovinezza: “la giovinezza, questa luce che splende in eterno. Ma quando essa cominciò a vacillare, a farsi sempre più fioca e stentata e dopo che tutti i suoi tentativi di trovare lavoro o di continuare il viaggio...erano falliti...scrisse ai suoi...e per la prima volta, pregò suo padre di aiutarlo...Non si era mai sentito così privo di forze e di risorse. Riconobbe il proprio fallimento e chiese del denaro”. Ma quei dati di realtà pregiudicheranno altresì l'idea stessa di bellezza, insita in quell'ansia di mondo idealizzato: “là dove si trova il bello, quello è il mio paradiso ma la bellezza è ormai compromessa, non mi protegge più” e, inesorabile, cala il sipario sulla Speranza: è infatti giunto al punto in cui: “Egli non spera nulla”. Deciso quindi a rientrare definitivamente a Vienna per reinsediarvisi, mentre è diretto in auto a Milano è vittima di un incidente stradale. Si salva, ma il guidatore dell'auto muore. Ed è questa morte, la morte dell'“altro”, che simbolizza la fine di quel viaggio e di quella ricerca e l'apparire di un nuovo essere. Il quale, a partire dall'accettazione del fallimento - che si configura come disillusione ma non come ripiegamento, bensì come presa di contatto con la realtà - si spoglia in primo luogo dell'illusione della morte come rifugio:” Da giovanissimo si era augurato una morte prematura, non desiderava nemmeno arrivare ai trent'anni. Ora invece si augurava di vivere”, ci dice di lui la Bachmann prima che egli lasci l'ospedale dopo l'incidente. Ed è da questo “varco” che gli si apre di fronte che passa quel suo reingresso nel mondo basato su una duplice sostituzione: dell'astratto (gli ideali) con il reale (la vita), e del rifiuto di tutto (il mondo tout-court) con la possibilità di credere in qualcosa (se stesso): “Ora incominciava a credere a se stesso quando faceva o diceva qualcosa. Acquistava fiducia in sé. E nutriva anche fiducia in quelle cose che non avevano bisogno di dimostrazione, i pori sulla pelle, il sapore di sale del mare, l'aria frizzante, e insomma tutto ciò che non era astratto”. E tra ciò che non è astratto vi è quel capello bianco, “questo primo segno dell'età”, che scopre su di sé, il quale gli dice che la vita sta facendo il suo corso ma di cui scopre di non esserne più preda. Ma quel capello bianco gli appare anche il segno tangibile di una sequenza di dolore: “Questo capello bianco, questa prova lampante di una sofferenza”. E, dicendo questo, la Bachmann ci dice che se è anche possibile trovare una salvezza ciò non è separabile dalle ferite che ci resteranno impresse.

Commenta

 
 Rispondi a questo messaggio
 Nome:
 Indirizzo email:
 Titolo:
Prevenzione Spam:
Per favore, reinserire il codice riportato nell'immagine.
Questo codice serve a bloccare i tentativi di inserimento automatici.
CAPTCHA - click right for audio Play Captcha