Killers of the Flower Moon

Grande affresco epico di una ignobile vicenda dominata dalla avidità e dal cinismo. Eccellente prova di recitazione di De Niro, Di Caprio e Lily Gladstone. ()
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La fine è nota, come avrebbe detto Shakespeare, massimo esperto di tragedie umane. Oppure, niente affatto. La fine è tutta da scrivere dopo 206 minuti di una ballata di ampio e lento respiro che appassiona, rende partecipi ma, a tratti, annoia pure.
Nelle ampie praterie dell’Oklahoma, subito dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, la tribù indiana degli Osage gode di enormi privilegi dopo che nelle terre loro assegnate dal Grande Padre Bianco è stato scoperto l’oro nero che zampilla come un fonte inesauribile riempiendo le loro tasche di impensabili ricchezze e agiatezze.
Dove si era mai visto che un nativo americano avesse come autista un bianco?
L’autista è il mestiere di Ernest Burkhart (Leonardo Di Caprio), rientrato a casa dopo aver servito la patria in guerra in qualità di cuoco della truppa, ottuso perdigiorno dotato della moralità di una cozza, come avrebbe detto Henry Miller. Amorale a tutto tondo è invece suo zio William Hale (Robert De Niro), presunto campione di onestà della sua comunità.
Nel precario paradiso degli indiani Osage che, malgrado il benessere, restano vistosamente legati al magismo rituale dei loro padri, i piccoli uomini bianchi si industriamo per sottrarre loro agi e potere, in una escalation di violenza e di razzismo strisciante che solo gli Stati Uniti d’America hanno rappresentato appieno, e ancora ben rappresentano, nella loro sia pur breve storia.
Inizia così uno sterminio chirurgico di indiani e di loro sostenitori dietro il quale si nasconde, ma non troppo, l’avido William Hale coadiuvato supinamente dal nipote Ernest che, per volere dello zio, si è nel frattempo sposato con Molly (Lily Gladstone), nativa indiana con considerevole patrimonio.
Che sia l’avidità uno dei sentimenti umani che muovono il mondo è cosa arcinota e, in questo caso, gli uomini bianchi ne manifestano all’eccesso, accompagnandola con abbondante opportunismo e cinismo.
Stante le premesse, per non spoilerare troppo, improbabile che ci sia un lieto fine.
Sullo sfondo, a intorbidire le acque, si muovono i magnati del capitalismo, i massoni e, va da sé, il Ku Klux Klan. Indaga la neonata FBI di J. Edgar Hoover.
Tratto dal saggio-inchiesta “Gli assassini della terra rossa” di David Grann, “Killer of the Flower Moon” è un affresco epocale a tinte foschissime in cui Martin Scorsese si esibisce in tutta la sua sapienza registica con qualche compiacimento di troppo. La lunghezza del film è forse un limite ma non inficia la grande prova dei protagonisti: perfetti De Niro nella sua sublime ambiguità e Di Caprio per lo stupore ai limiti della dabbenaggine. Ma l’interpretazione più intensa è data dallo spessore recitativo di Lily Gladstone, bravissima nel rendere il suo struggimento dolore di un intero popolo.
Eccellente fotografia di Rodrigo Prieto, storico collaboratore di Scorsese, e musiche superlative di Robbie Robertson, tra i migliori chitarristi di sempre con la Band che accompagnava Bob Dylan, con il robusto supporto di ballate country tradizionali.
Poco prima dei titoli di coda si affaccia la magia autentica del cinema quando viene proposta la ricostruzione di un radiodramma, con tanto di orchestra e rumori in diretta, che riassume il finale della storia.
Un espediente narrativo tutt’altro che scontato anche grazie alla presenza in qualità di speaker di Scorsese stesso.

In programmazione all’Arcobaleno Film Center e al Cinema Plinius

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