Verso la foce

Con la raccolta di Gianni Celati si chiude il percorso di lettura dedicato al tema “Racconti italiani d’autore”. ()
verso la foce
Gianni Celati ci ha lasciati lo scorso mese di gennaio, questo articolo vuole essere anche un un omaggio a lui e alla sua opera.

Pubblicato nel 1989 “Verso la foce” raccoglie “quattro diari di viaggio” - come lui stesso li definirà - relativi a tragitti fatti da Celati lungo il Po, percorrendone rive e argini ed attraversando città e campagne ad esso vicine. I quattro tragitti, compiuti tra il 1983 e il 1986, furono effettuati, dal punto di vista geografico, non in sequenza tra loro. Per cui mentre l'ordine narrativo dei diari, scelto da Celati per la pubblicazione, rispecchia quello geografico e quindi, di fatto, “Verso la foce” si configura come la ricostruzione di un viaggio, se pure a tappe distanziate nel tempo, verso la foce del Po, seguendone il suo naturale asse spaziale, l'ordine cronologico dei tragitti resta indipendente e diverso da quello geografico.
Ora, va subito detto che questi “diari” sono assolutamente estranei all'idea e alla forma del tradizionale reportage di viaggio ma si configurano come un insieme di impressioni, anche discontinue - in quanto tra loro varie e diverse - che Celati ricava da ciò che incontra ed osserva. La sua è un'attenzione per così dire antropologica che “guarda” lo stare al mondo che si svolge intorno a lui, in un luogo, il corso del grande fiume, in cui natura e paesaggio, sono irrimediabilmente cambiati, ed è proprio il suo inoltrarsi in quella natura e in quel paesaggio o quantomeno in ciò che ne resta che Celati ci racconta. Perché quell'inoltrarsi avviene all'interno di quel “deserto” che la valle del Po è divenuta, disseminata come essa è di cartelloni pubblicitari, insegne commerciali, villette geometrili dipinte con colori acrilici e con i giardini occupati dai nanetti di Biancaneve, mentre per contro ci sono case coloniche abbandonate e vecchie corti in rovina tra svincoli autostradali e “siderali distese d' asfalto”.
E' insomma l'esito delle “mutazioni” prodotte dal dominio della dimensione di tutto ciò che è materiale quello a cui Celati dà visibilità in “Verso la foce”. E, nel coglierne il suo affermarsi, egli gli oppone la sua sensibilità e la sua “visione” che svelano l'intrinseco non senso che vivere in quella dimensione trasmette. Ma, soprattutto, gli oppone il suo modo di suscitare la dimensione opposta cioè quella dell' immateriale che, pur in quell' assenza di senso, egli riesce ad evocare, creando una sorta di sottofondo poetico semplice e, al tempo stesso, malinconico. E questo sottofondo dona a “Verso la foce” un suo particolare fascino perché trasmette una leggerezza insita in uno sguardo che sa liberarsi e sa superare la realtà così come essa è.
“Verso la foce”è pertanto fortemente centrato sull'esperienza del vedere, tanto che Celati stesso definirà i quattro diari “racconti d'osservazione”. E ciò non solo perché essi nacquero nel contesto di un progetto fotografico ideato dal grande fotografo Luigi Ghirri, di cui Celati fu grande amico, ma anche perché Celati rivolge uno sguardo al paesaggio che egli attraversa che fa del vedere un'esperienza di interpretazione del mondo come gli “appare” lungo il suo cammino. Celati starà infatti in continuo dialogo con se stesso rispetto a ciò che incontra, cercando di stabilire delle “relazioni” con cose e persone in base all' empatia che gli suscitano.
Lontano quindi sia dall'idea romantico-turistica del paesaggio, sia da quella dell'indagine sociologica indotta dall'osservazione del paesaggio, Celati si rivela del tutto estraneo a qualsiasi ricerca di oggettività e di razionalità, muovendosi invece nel flusso del disordine delle cose che incontra e che attraversa, assecondandolo. Il paesaggio che Celati vede e ci racconta è infatti dominato da quel disordine con tutto lo spaesamento indotto in lui da quella dilagante “normalità” che gli si presenta lungo il suo cammino. Egli ci fa vedere quanto la pervasiva omologazione che quella “normalità” produce snatura il mondo, offusca la bellezza e genera un caos che è insieme spaziale, visivo ed esistenziale. Ciò che Celati vede e racconta si rivela al suo solo apparire impietoso, perché l'invasione degli spazi e la loro distruzione, prima attraverso la loro appropriazione, poi attraverso l' insediarsi in essi, determina quell'espropriazione del naturale da parte del residenziale che espropria il paesaggio dal poter essere ancora un bene comune.
L'inquinamento materiale diventa così estrinsecazione di un inquinamento esistenziale che si manifesta in quell'indifferenziato e in quell'indifferenza in cui uomini e cose vivono. Sembra un mondo abitato sempre di più da esseri espropriati della loro anima così come case e cose che li circondano sembrano a loro volta senz'anima. Scrive a questo proposito Celati: “Viaggiando nelle campagne della valle padana...ciò che sorprende è questo nuovo genere di campagne dove si respira un'aria di solitudine urbana.” Ed è dentro questa solitudine che si genera la sensazione di un mondo sempre sul punto di perdere significato e di svanire implodendo in se stesso, dentro un vuoto e un silenzio che trasmettono un desolato e desolante senso di abbandono.
Celati nel suo guardare si sofferma e si interroga di continuo sulle “apparenze” che le cose hanno, attratto assi più dall' inappariscenza delle cose che dal loro apparire, consapevole del mistero che si cela dietro la realtà e di quanto, la bellezza che le cose possono avere, sia racchiusa in tale mistero. Invece il mondo così com'è sembra fuggire e rifuggire di continuo da quel mistero, negandolo; occupato e preoccupato solo di affermare “...un'idea del mondo come evidenza senza misteri, frigida informazione sui fatti del giorno e basta”. Ed è il fascino di luoghi che ancora possiedono quel mistero che richiama l'attenzione di Celati, di cui ci trasferisce il loro incanto che diventa, nelle sue parole, narrazione favolistica.
Come nell'evocativa descrizione di Pomponesco e della sua piazza, o come quando descrive la magnifica ed enigmatica facciata della reggia di Colorno, a fronte della impersonale geometrica fissità delle villette sparse nelle campagne. Ma questo mistero riguarda anche la terra e il fiume e tutto ciò che vi si muove segretamente, nonostante noi. Come quando, immerso nella vastità del Delta, Celati si accorge che pure il linguaggio non è in grado di rendere quel mistero rivelando la sua impotenza di fronte a quel compito. Ma questa impossibilità di distinguere e quindi di nominare a cui Celati si vede messo di fronte dall' imperscrutabilità della natura, rimanda ad una sua consapevolezza profonda di cui ci fa partecipi e cioè di quanto sia vano organizzare il mondo e pretendere di impossessarsene, laddove, invece, è assecondando e osservando il fluttuare delle cose nel loro apparire e scomparire che possiamo stabilire un rapporto esistenzialmente fervido con esse e con noi stessi.
E, nell'alveo di questa sensibilità, vi è l' altra consapevolezza, quella di non pensare il mondo come qualcosa di permanente, laddove proprio il Delta con i suoi frastagliamenti e la “mobilità” delle sue sponde diventa metafora dell'impermanenza del mondo, di come cioè tutto sia predestinato a eclissarsi “ridiventando detriti”. E' quella di Celati una cognizione del mondo dove tutto è sempre sul punto di svanire, rivelandone, del mondo, la finitezza e facendo dello smarrimento una scelta esistenziale verso cui disporsi, accogliendola. Così i “diari” di Celati si distendono e si dilatano come fossero dei diari personali nel senso che in essi si avverte la presenza di una intimità: “Anche l'intimità che portiamo con noi fa parte del paesaggio”, egli dice e gli itinerari diventano non più solo quelli geografici ma anche quelli dentro se stessi e con se stessi.
Celati ci conduce dentro una sorta di peregrinazione aprendo percorsi all'interno di uno spazio che è più ampio di quello narrato, corrispondendo esso a ciò che egli riteneva “necessario” che, quel suo viaggiare, lo dovesse portare: “Ogni osservazione ha bisogno di liberarsi dei codici familiari che porta con sé, ha bisogno di andare alla deriva in mezzo a tutto ciò che non capisce, per poter arrivare ad una foce, dove dovrà sentirsi smarrita. Come una tendenza naturale che ci assorbe, ogni osservazione intensa del mondo esterno forse ci porta più vicino alla nostra morte; ossia, ci porta ad essere meno separati da noi stessi.”
Il carattere del “viaggio” compiuto da Celati è quindi quello di un pellegrinaggio al contrario, il cui fine non è il raggiungimento di una certezza e la conquista di una verità, anzi ne costituisce la definitiva perdita. Solo in apparenza c'è quindi una destinazione perché, al fondo, c'è un indicibile che resiste ad ogni scrittura e il narratore che cammina verso la foce non può che lasciarsi andare all'indifferenza di quel silenzio che alla fine lo accoglie e che egli, a sua volta, può accogliere sereno, libero da qualsiasi residuo osservare, da qualsiasi attesa o ricerca.

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