Un giorno di fuoco

I racconti di Beppe Fenoglio costituiscono la proposta di lettura per il mese di maggio nel percorso “Racconti italiani d’autore” a cura di Raffaele Santoro. ()
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I nuclei narrativi su cui si fonda e si sviluppa l'opera di Fenoglio hanno riscontri e legami profondi con i vissuti esperenziali ed esistenziali che Fenoglio stesso si trovò a condividere e di cui fu partecipe. Il più noto di tali vissuti resta sicuramente quello della lotta partigiana a cui Fenoglio aderì e prese parte e che trovò ne “Il partigiano Johnny” e in “Una questione privata” i suoi due più famosi e riusciti esiti letterari. Ma tale schema lo si riscontra in modo analogo in relazione ad un altro dei nuclei narrativi di Fenoglio che è quello presente nei racconti di “Un giorno di fuoco”, pubblicati postumi per la prima volta da Garzanti nell'aprile del '63, due mesi dopo la morte di Fenoglio avvenuta nel febbraio di quell'anno, in un'edizione che comprendeva 12 racconti. Scelta questa decisa non da Fenoglio ma dell'editore e non corrispondente alle volontà dell'autore che aveva invece espresso l'intenzione di pubblicare a sé stante i primi sei racconti, contenuti in quell'edizione, con il titolo di “Racconti del parentado”, come poi effettivamente avvenuto nella successiva ed attuale edizione Einaudi che adottò entrambi i titoli e pubblicò solo i sei racconti indicati da Fenoglio.
Ora, “Racconti del parentado”, fa intuire in modo immediato a quale tipo di esperienza questi racconti rimandano. Perché un altro dei nuclei narrativi fondamentali presenti nell'opera di Fenoglio, che prende le mosse dai suoi vissuti, è quello delle “origini” in cui convergono sia l'ambito familiare in senso allargato, il “parentado” appunto, sia i luoghi dell'infanzia, così come peraltro della vita adulta di Fenoglio cioè le Langhe, alle quali egli rimase sempre fedele e radicato, sia in termini di esistenza personale che di ambientazione dei suoi racconti e dei suoi romanzi. Ne i racconti di “Un giorno di fuoco” si compie infatti una trasposizione, sotto l'egida della memoria e del ricordo di vicende che risalgono alla fanciullezza di Fenoglio, collegate al suo ambito familiare, rese in modo tale da farne, ognuna a suo modo, delle vicende epiche, quasi esse fossero parte di una più ampia “saga”, rappresentativa di quell' universo umano ed esistenziale che in quelle Langhe, che Fenoglio ben conosceva, viveva. Così, prendendo le mosse da fatti attinenti storie di cui Fenoglio da ragazzino aveva sentito dire o che emergevano dai ricordi delle lunghe estati trascorse presso i parenti paterni, egli ce ne fa partecipi raccontandocele in tutta la loro assurda, folle e spesso tragica risonanza.
Nella loro rievocazione egli infatti non si preoccupa di ricostruirle cronachisticamente ma ne fa una “riscrittura” che mette a fuoco proprio l'assurdità, la follia e la tragicità che in quelle storie si alternano e convivono. Emancipando quindi i fatti dalla loro natura di “resoconto” e facendone “racconti” che vivono di vita propria e illuminano esistenze e significati che ci parlano di un mondo e del suo modo di stare al mondo. Sono vicende che si ingigantiscono su se stesse quelle che racconta Fenoglio, che prendono la mano e sfuggono di mano ai loro protagonisti i quali finiscono vittime di un destino che, se va bene, può essere beffardo, ma che, viceversa, può essere spietatamente crudele, accanendosi senza che vi sia né scampo né salvezza per chi di tale destino ne diviene fatalmente oggetto.
Siamo, in questo senso, dalle parti di un altro dei gangli narrativi fondamentali di Fenoglio quello che aveva trovato ne “La malora” la sua piena ed esplicita rappresentazione. Quel mondo di “vinti” che per quanto strenuamente si oppongano a quel loro destino e lo contrastino ad esso non sfuggono. Ma pur nella comune crudezza e durezza dei contenuti qui, rispetto a “La malora ”, vi sono venature comico-amare, sprazzi dissacratori, tratteggi grotteschi, sollecitazione ironiche, passaggi intrisi di nero umorismo che stemperano l'alone tragico che avvolge le vicende e i personaggi, anche per effetto di quel vagolare favoloso del ricordo che Fenoglio infonde alla narrazione. Così in diversi racconti i toni diventano quasi picareschi nel senso che vicende in sé tragiche vengono narrate da Fenoglio – con quella sua tipica prosa asciutta, secca, sferzante – in una chiave che diventa, di fatto, tragicomica, il che le rende solo apparentemente meno feroci di quello che esse in realtà sono.
“Un giorno di fuoco”, il racconto che apre la raccolta e ad essa dà il titolo, da solo vale il libro e non perché gli altri racconti non siano anch'essi molto belli ma perché resta uno dei più bei racconti del Novecento e poi perché possiede uno dei più bei incipit fra i racconti del Novecento: “Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull'aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla sua lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia. Fu il più grande fatto prima della guerra d' Abissinia”. Un incipit che ha una tensione e una forza che sembra già anticipare l'epilogo facendone presagire gli effetti. Un incipit fulminante e straordinario, cinematografico e spietato che sintetizza in poche righe le “gesta” di cui sarà protagonista e, al tempo stesso, vittima Pietro Gallesio che la zia di Fenoglio chiamerà, nel corso del racconto, il “folle di Gorzegno”. La cui vicenda ruota sui temi della delusione, dell' inganno, del disincanto, dello scoprirsi alla mercé e ostaggio di circostanze nelle quali si finisce trascinati senza potervi mettere freno, come preda di una spirale che fa sprofondare verso il basso senza che la volontà possa fare da argine, temi questi che accomunano questi racconti.
Ma sono anche racconti abitati da personaggi lunatici e “pazzi”, sanguigni e “paesani”, dove disperazione e farsa convivono assumendo le vicende dimensioni “epocali” per la loro esagerata ed assurda eccezionalità. Come quella dello zio Paco, protagonista del racconto “Ma il mio amore è Paco” che, in una sola notte, dilapida al gioco il suo immenso patrimonio di commerciante di bestiame, partecipando ad una bisca clandestina di paese. E sempre su questo filone orbita il racconto “Pioggia e la sposa” dove la zia di Fenoglio trascina - in quella che “Fu la peggiore alzata di tutti i secoli della mia infanzia” come recita l'incipit del racconto - il piccolo Fenoglio e suo cugino, sotto una pioggia torrenziale, su e giù per le Langhe, per andare ad un matrimonio al quale la zia non intende mancare per nessun motivo: “...Credi che per un po' d'acqua voglio perdere un pranzo di nozze?” dirà al figlio che guarda smarrito ancor prima di partire l'acqua che sale di livello in modo inesorabile.
Ma in questi racconti vi sono anche storie brutali come quella di Superino, protagonista dell'omonimo racconto, che scoprirà per ultimo e dopo svariati anni - quando tutti in paese lo sapevano da sempre - di essere figlio del parroco e della maestra del paese, entrambi personaggi livorosi e acidi che, per nascondere lo “scandalo”, ancora prima che egli nascesse, lo avevano già “dato” - insieme ad una cospicua somma e a vari favori con cui rendere vantaggioso quel baratto - ad un'altra coppia di cui Superino aveva sempre creduto di essere figlio. La scabrosità della vicenda si trasforma in dramma: Superino travolto dal contraccolpo della notizia e, soprattutto, dallo schifo e dalla vergogna si lascia annegare nelle acque del Belbo.
La raccolta si chiude con un racconto: “La novella dell'apprendista esattore” che è “gemello” del racconto con cui si apre, essendovi qui un protagonista: Davide Cora, letterariamente affine a Gallesio. L'esattore del titolo, che è poi un cugino di Fenoglio, viene mandato, al suo primo incarico, a riscuotere le tasse da Cora il quale per tutta risposta lo prende a fucilate. Scatta così di nuovo una tenzone mortale, questa volta però tra l'individuo e la società. Cora testardamente teso a difendere il “suo”, non vuole cedere alla logica per lui brutale del sistema e vive la sua solitaria avventura come animato da una sua sete di giustizia. Se, infatti, in “Un giorno di fuoco”, la vendetta di Gallesio è una vendetta per così dire privata, ne “La novella dell'apprendista esattore” lo scontro aperto è con tutto ciò che rappresenta il potere, le istituzioni, la legge, se si vuole con lo Stato, vissuto come corresponsabile delle proprie sfortune. In quanto proteso solo ad esercitare la sua autorità e i suoi interessi: incassare le tasse e se, come in questo caso, non ci riesce, mandare i Carabinieri, che infatti arrivano, circondano la casa di Cora e lo assediano, con quelli del posto che parteggiano per Cora.
C'è in Cora come c'era in Gallesio quella piccola/grande ribellione privata di personaggi che non vogliono farsi umiliare, che non vogliono chinare la testa, che non ce la fanno più. E così, ancora una volta, quella predestinazione che muove uomini e azioni e che non lascia spazio per i sentimenti colpirà inesorabile, producendo un'altra carneficina tra esseri umani che, pur se su opposti fronti, sono, sia gli uni che gli altri, vittime sacrificali.

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