Il capofabbrica

La raccolta di racconti di Romano Bilenchi è la prima proposta del ciclo di letture “Racconti italiani d’autore” a cura di Raffaele Santoro. ()
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Profondamente radicato nella realtà toscana, alla quale restò sempre legato, essendo nato a Colle di Val d'Elsa nel 1909 e vissuto tutta la vita a Firenze dove morirà nel 1989, Romano Bilenchi è stata una delle figure di spicco del nostro Novecento. Sia per il valore delle sue opere letterarie, fra le quali predomina “Conservatorio di Santa Teresa”, unanimemente considerato uno dei romanzi più belli e importanti della nostra letteratura. Sia per la sua attività giornalistica che svolse, prima della guerra, per circa dieci anni, alla “Nazione”, poi - dopo la liberazione di Firenze a cui partecipò nelle file della Resistenza fiorentina - come direttore di alcune testate sorte in città in quegli anni, ed in particolare del “Nuovo Corriere” che diresse dal '48 al '56 e che, sotto il suo impulso, divenne un punto di riferimento culturale di ampio respiro, ospitando sulle sue pagine intellettuali e scrittori quali Bobbio, Calamandrei, Capitini, Bo, Cases, Cassola, Tobino, la Ortese.

La biografia letteraria di Bilenchi è composta da romanzi ma, soprattutto da racconti, fra i quali si inseriscono, a pieno titolo, quelli contenuti ne “Il capofabbrica” che è un'opera che occupa un posto particolare in quanto segna la “nascita” letteraria di Romano Bilenchi. Essa è infatti considerata la sua opera fondativa, quella cioè in cui viene per la prima volta alla luce, in modo risolto e letterariamente alto, la personalità e l’originalità di Bilenchi. Ora, affermato che “Il capofabbrica” è un testo di grandissima e rara intensità, se ne resta ancor più colpiti se si tiene conto non solo, come anzidetto, che esso è da considerarsi una sorta di opera prima ma, soprattutto, che Bilenchi lo scrisse tra il 1930 e il 1932, cioè fra i 21 e i 23 anni.

Segno quindi di una maturità espressiva e personale già molto sviluppata, essendovi ne “Il capofabbrica” una tale profondità e sensibilità, nello sviluppo e nella declinazione delle tematiche trattate, ed una tale padronanza, nel controllo e nella gestione della scrittura, da sembrare un’opera assai più matura rispetto all’età in cui Bilenchi la scrisse. Peraltro la scrittura di Bilenchi merita un commento a sé, per la sua asciuttezza, per quel suo procedere per sottrazione, per la sua iconograficità soprattutto in relazione alla capacità di rappresentare geometricamente lo spazio e di fissare con un’immagine, in modo indelebile, un moto dell’animo o un alito di vita, come la tonaca di Dino, nell’omonimo racconto, che “sventolava come una bandiera di morte”. Ma la scrittura di Bilenchi è anche connotata dalla fulmineità. Bilenchi non indugia su quello che narra, passa e va, assecondando l’inesorabile scorrere del tempo e il silenzioso e muto travaglio dei personaggi. In questo senso le sue pagine sono dense, ma le sue frasi sono brevi.

L’impianto de “Il capofabbrica” è costituito da otto storie, sorta di brevi racconti, in sé autonomi, ma in realtà interconnessi tra loro tramite il personaggio di Marco che “ritorna” nei diversi racconti a formare quella coesione narrativa che dà a “Il capofabbrica” anche una sua leggibilità in chiave di epopea familiare, data dallo sfondo familiare e dei familiari che a Marco afferiscono e il cui tratto distintivo, di tale epopea, è quello di un’umanità sottomessa alla legge del più forte, dove la brutalità non è un disvalore e se serve la si usa, anche tra consanguinei. Ma lungi da qualsiasi didascalica linearità Bilenchi non ci racconta la “storia” della famiglia di Marco, bensì fa altro. Egli delimita le rotture che aggrediscono e segnano le vite dei personaggi, le loro mutazioni profonde e sofferte, dovute a irreversibilità laceranti, dove ad abdicare senza conforto alcuno è, da una parte, l’innocenza e, dall’altra, la salvezza, restando al massimo, al fondo di tutto, più nel lettore che nei personaggi, uno smarrito senso di pietas.

In tal senso restano indelebili alcune figure quali il personaggio di Dino la cui eclissi esistenziale lo porterà a farsi prete, giunto, come egli era giunto, a cogliere l’insignificanza delle lusinghe della vita a cui era vitalisticamente attaccato, allorquando gli muore il suo più caro amico Aldo. O il personaggio di Andrea, il capofabbrica protagonista del relativo racconto che, con una torsione dolorosa, che gli farà vivere un senso di sconfitta, dovrà prendere coscienza che Marco, padrone della fabbrica e fascista, un fascista ancora illuso che il fascismo sia “la cosa giusta”, si rivela in realtà assai migliore, per le doti di rispetto e umanità che manifesta, rispetto a chi, invece, dovrebbe essergli amico e sodale, anche per le comuni idee politiche, essendo tali sodali, così come lo è Andrea, antifascisti.
Ma anche i pazzi protagonisti del racconto omonimo, nonché il nonno di Marco che dà il titolo al relativo racconto sono figure di sconfitti ed esclusi che gli altri: i parenti, la gente, il mondo, vorrebbero solo far scomparire senza tante storie. Perché gli esclusi, sia che essi si siano autoesclusi o siano esclusi davvero, sono i personaggi che interessano a Bilenchi. Il mondo, come ce lo descrive Bilenchi, non è infatti un luogo accogliente e protettivo, al contrario è un luogo di sopraffazione, ferino e, al tempo stesso, carico di indifferenza. In questo senso, ne “Il capofabbrica”, aleggia costante un sentore di selvaggio e di primordiale e ciò perché, al fondo, è inscenata la rappresentazione di uno scontro tra forze e, più precisamente, uno scontro tra pulsioni di vita e pulsioni di morte.

Tutto il testo, in questo senso, è attraversato da una geometrica spietatezza, dovuta alla lotta, spesso senza esclusione di colpi, che i diversi attori, protagonisti delle vicende narrate, devono condurre per raggiungere i loro obiettivi e i loro scopi. E, anche quando questi sembrano raggiunti e a portata di mano e tanto si è lottato per arrivarvi, d’improvviso essi appaiono insignificanti e vani, oppure ne è impedito un reale e pieno godimento, perché qualcosa accade e sopravviene a sbarrarne l’accesso e la realizzazione. Spesse volte la morte in prima persona che, di solito, imperturbabile e silenziosa, si appalesa con tutta la sua ineffabile imprevedibilità e, carsicamente, riaffiora costantemente nelle pagine de “Il capofabbrica”.
Archetipico di questa inafferrabilità del vivere è il famosissimo incipit, considerato da molti come uno degli incipit più belli di tutta la letteratura italiana del '900. A suo modo indipendente e autonomo dal resto delle successive narrazioni, esso, in realtà, dà l’imprinting all’intero testo, condensando, al suo interno, molti dei temi de “Il capofabbrica”. In 58 righe che costituiscono l’inizio del primo racconto intitolato “La fabbrica”, si descrive il repentino passaggio dall’entusiasmo alla desolazione di Giovanni il quale “aveva terminato di costruire la fabbrica” e, fermo al centro del piazzale, circondato dai diversi edifici e corpi che formavano il complesso della fabbrica, ormai definitivamente edificati, silenziosamente immerso in quell’attimo di assoluta perfezione di spazi e prospettive, “al colmo del suo entusiasmo” giacchè “Quelli erano i mezzi per raggiungere altra felicità e altra agiatezza”, “...si sentì a un tratto desolato. La sua felicità svaniva”.

Senza un reale perché “...i muri bianchi e nuovi, cresciuti sotto i suoi occhi amorevoli, avevano perduto ogni intesa con lui e più egli li guardava più l’improvvisa tristezza che lo aveva assalito si faceva acuta.” In questa scena si consuma e si volatilizza tutta la felicità di Giovanni, a sancirne la sua inesorabile aleatorietà e la sua impossibilità a “fissarsi” laddove, quando raggiunta, essa è subito destinata a svanire. Tutto appare quindi sfuggente e sfuggevole e nulla si possiede veramente, neanche ciò che è o sarebbe nostro e quanto vana si rivela la nostra stessa possibilità di affermare noi stessi. Lo smarrimento di Giovanni è lo smarrimento che ci assale quando cerchiamo di penetrare le cose e di afferrarle ed esse si sottraggono, a prescindere dalla nostra volontà e nulla, quindi, possiamo considerare scontato.
E se quello di Giovanni sembra lì per lì solo uno smarrimento misterioso e inconsapevole, solo un moto dello spirito, esso si trasforma, pochi attimi dopo, in una crudele premonizione e si fa realtà. Allorquando: “Un grido scosse Giovanni” e “vide la moglie che si strappava i capelli”. Il figlio di Giovanni che, quel giorno, egli aveva portato con sé era caduto “nella gora che limitava a sud la fabbrica” e Giovanni, memore che lì sotto vi era stato un convento di frati le cui ossa “erano venute fuori dappertutto” durante i lavori, ebbe chiaro, quasi che fosse cosa normale, che quello era un luogo di infelicità e di morte. Recuperato il corpo esanime del figlio, Giovanni pagò gli operai, “chiuse i cancelli e cercò un compratore per la fabbrica”.

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