Il seme della violenza

Riparte a pieno ritmo la stagione dell’Elfo Puccini con uno spettacolo corale di impegno civile contro la barbarie dell’omofobia. ()
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Laramie. Wyoming. Profondo centro degli Stati Uniti. Uno Stato che nella bandiera ha l’effigie di un bisonte, con un immediato rimando ai valori (?) dell’ultima frontiera. Matthew Shepard è giovane, non ha ancora compiuto ventidue anni, è socievole, simpatico, ben voluto, omosessuale. La notte del 6 ottobre 1998 viene massacrato di botte, derubato e abbandonato in un campo da due coetanei che si pregiamo di schifare le persone gay.

Matthew Shepard muore qualche giorno dopo l’aggressione sconvolgendo il tranquillo tran tran di una cittadina perbene e perbenista, il cui motto sembra essere “vivi e lascia vivere”.
Moisés Kaufman e i membri della compagnia teatrale Tectonic Theater Project decidono di trasferirsi a Laramie per indagare, con le armi del teatro, su quella morte violentemente assurda. Nasce così il “The Laramie Project” che fornisce anche il sottotitolo allo spettacolo in scena all’Elfo sino al 2 luglio con la regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia.

Nella versione dell’Elfo, si muovono in scena 8 attori, capitanati dallo stesso Bruni, che ricostruiscono pensieri, parole e fatti della folla di persone coinvolte nel misfatto: medici e poliziotti, vicini di casa e amici del ragazzo ucciso, cittadini e religiosi, i suoi genitori rigorosamente e civilmente schierati a favore dei diritti del figlio.
Nella coralità delle parole e dei canti (commovente l’esecuzione di “Amazing Grace”), affiora l’America con tutte le sue contraddizioni che, purtroppo, sono ancora le stesse che riviviamo da noi oltre vent’anni dopo quei fatti.
Il prete che agita il cartello “Dio odia i froci” sembra di vederlo ancora all’opera nelle nostre piazze, pronto a osteggiare ogni giusta battaglia di civiltà.

Dove sta il seme della violenza? Soprattutto e innanzitutto nelle parole che tendono a infamare e infangare, per affermare una normalità che non esiste e non è mai esistita in quanto ognuno è “normale” a modo suo e non per come la pensano gli altri.
Tutto questo restituisce lo spettacolo che richiama la tolleranza e l’equilibrio, i diritti dei più deboli contro ogni sopruso sociale.
Alla fine un lungo applauso liberatorio a premiare l’ottimo lavoro degli interpreti che, ci piace pensare, sia anche rivolto al ritorno a teatro dopo mesi di chiusura che hanno lasciato il segno.
Forse qualche enfasi di troppo che si poteva evitare, ma il tema richiede di schierarsi, senza se e senza ma, come si diceva un tempo.

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