Memoriale

Con il romanzo di Paolo Volponi si chiude il percorso di lettura curato da Raffaele Santoro sul tema “Luoghi letterari del '900”. ()
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“Memoriale” è stato etichettato, sin dal suo apparire avvenuto nel '62, come romanzo facente parte di quella 'letteratura industriale', sviluppatasi negli anni '60, che pose al suo centro il rapporto uomo/fabbrica alla luce del ruolo che il fenomeno della diffusa industrializzazione del Paese aveva assunto in quegli anni. E sicuramente l'ambientazione di “Memoriale”, che ha in una fabbrica il suo luogo narrativo, nonché le vicende del protagonista Albino Saluggia, che saranno strettamente legate a quella fabbrica, hanno indotto a 'leggere' in quella chiave il romanzo.

Tuttavia la sua natura profonda va oltre lo specifico del contesto della fabbrica e delle sue dinamiche, anche perché se non fosse così oggi “Memoriale” si ridurrebbe a mero romanzo di 'testimonianza' di quel mondo e di quel momento laddove, invece, esso sprigiona ancora una forza narrativa e un'intensità espressiva altissime proprio perché la storia di Albino Saluggia si impone per quanto di comune in essa vi è con aspetti fondamentali della condizione umana. E cioè per quella tensione esistenziale che attraversa ininterrottamente il romanzo, essendovi, nella vicenda del suo protagonista, un perenne dover fare i conti con uno stare al mondo che, per lui, si rivelerà difficilissimo e lacerante. In quanto lo scontro che dovrà affrontare non sarà solo in fabbrica e con la fabbrica ma sarà, assi più tragicamente, nella vita e con la vita.

“I miei mali sono cominciati tutti alcuni mesi dopo il mio ritorno dalla prigionia in Germania, quasi che la terra materna, dopo tanto e così crudele distacco mi rigettasse”. Con queste parole Albino Saluggia inizia la sua narrazione che si qualifica, poco dopo, con la necessità di dare voce a una sofferenza divenuta ormai estrema, per offrirle uno sfogo che la renda sopportabile ma anche, e soprattutto, una identità che la sveli per intero: “Oggi che scrivo ho già compiuto trentasei anni e i miei mali sono arrivati a un punto tale che non posso fare a meno di denunciarli”. Perché quei suoi mali ormai durano da dieci anni tanto è il tempo trascorso dal loro apparire allo scriverne a cui Albino sta dando seguito nel suo “memoriale” da cui il titolo del libro.

E così, in quel vuoto determinato dal sentirsi respinto e rifiutato da quella 'terra materna' che egli si attendeva che lo accogliesse e lo confortasse dopo la guerra e la prigionia - evidente rimando all'assenza affettiva di sua madre capace di avvolgerlo solo di silenzi: “Mia madre parlava poco” - avviene l'incontro con la fabbrica, in cui Albino viene assunto come fresatore. E dalla fabbrica egli è affascinato e attratto per quella sua 'grandezza' misteriosa che rimanda a un che di rituale e sacro, tanto da fargli paragonare la fabbrica a una chiesa o a un tribunale, finendo per diventare oggetto dei suoi investimenti e principio di un nuovo ordine e di una nuova vita. Albino ripone infatti nella fabbrica la fiducia appagante di essere pienamente accolto e accettato, ma anche, finalmente, vede la possibilità di porre un argine a quel male che, come amaramente constata nel suo “memoriale”, lo ha, in tutta la sua vita, seguito e inseguito. Un male che affonda nella sua congenita 'diversità', dovuta alla sua natura solitaria, al suo bisogno di appartenenza e inclusione, a quel suo vissuto di 'maltrattato' dalla vita che lo accompagna e che lo rende quasi costituzionalmente predisposto a subire le avversità.
Ma, nonostante le speranze, l'avversità lo colpirà di nuovo con le sembianze di quella tubercolosi che gli verrà diagnosticata proprio lì in quella fabbrica che doveva essere il luogo della definitiva liberazione e rinascita e che invece diverrà per lui causa di una lotta disperata e autodistruttiva che lo coinvolgerà senza tregua trasformando lui e la sua vita in un groviglio nevrotico e ossessivo. Alimentato da un esasperato ed esasperante conflitto con tutti coloro che da quella fabbrica lo terranno fuori affinché si curi, laddove, invece, per Albino ciò sarà vissuto persecutoriamente come una violenza e una cattiveria subdola e sistematica di chi lo vuole solo estromettere attribuendogli un male che non c'è visto che quel male in fondo - ragiona Albino - non gli impedisce di lavorare.

Il fascino della fabbrica si trasformerà così, per Albino Saluggia, in un vissuto inumano, sentendosi respinto, isolato, inascoltato. Accanendosi contro quei medici aziendali i quali a loro volta si accaniscono, dal suo punto di vista, contro di lui, e finendo per assumere, lui e la sua vicenda, risvolti assurdi e grotteschi, tali da farlo passare per 'matto'. La fabbrica, invece, fredda e imperterrita, sosterrà in tutto e per tutto le sue cure, con generosa quanto ferma inderogabilità, non concependo di avere all'interno 'corpi estranei' che, in quanto 'malati', sono vissuti come una minaccia per l'efficienza e la produttività aziendale. Ed anche tra i suoi stessi compagni di lavoro egli sarà vissuto più con compatimento che con reale solidarietà, vanificandosi anche da questo punto di vista l'illusione di una 'appartenenza' di cui potersi fidare e a cui potersi affidare. E pure il lavoro che, all'inizio, lo aveva coinvolto e appassionato, in cui si era distinto per la sua laboriosa bravura, si svuoterà per lui di senso e di significato, rivelandosi in tutto il suo contenuto alienante in quanto sentito lontano da sé e dalle sue effettive aspirazioni.
Eppure dall'eco di quella diversità e da quella nevrosi imperante scaturirà una problematica ricchezza che porterà Albino a osservare il suo malessere dall'interno, a scavare nella propria psiche, a ragionare sulle cause e le conseguenze, in un dialogo con se stesso commovente nella sua lucida e spietata dolorosità. In tal senso la nevrosi diventa quasi essa stessa la protagonista del romanzo al punto da fare di Albino a suo modo un 'ribelle', impedendogli sia di addivenire ad alcun compromesso con l'amata-odiata fabbrica sia di instaurare tra sé e la sua situazione alcuna forma di equilibrio. Un ribelle che non riuscirà però a fare di quella ribellione una reale rivolta, finendo per essere emarginato e trascinato in una spirale di sconfitte che lo voteranno al fallimento e finendo, nel contempo, per isolarsi sempre di più, cercando da se stesso e in se stesso le soluzioni ai suoi mali.

Da una parte vi sarà il suo rifugiarsi solipsistico e solitario in quella campagna là dove egli vive e in cui si trova il suo paese: Candia, nel Canavese; quella campagna verso cui prova un attaccamento protettivo e rassicurante, investendola affettivamente, in modo quasi idillico, di certezze rasserenanti. Luogo altro e diverso quindi dalla città sia quella in cui ha sede la fabbrica piuttosto che il vicino capoluogo Torino, luoghi vissuti da Albino come estranei ed estranianti. Ma in questo conflitto, vissuto da Albino nella sua ingenua visionarietà, si annida in realtà un conflitto reale che è quello tra la natura di cui l'uomo è parte e le macchine cuore pulsante della fabbrica, simbolo di un sistema votato alla logica della produzione. È quindi uno scontro antropologico quello che incarna Albino, laddove lo scontro è nel rimando alle mutazioni che la fabbrica e il mondo che essa rappresenta determinano nei rapporti e nelle relazioni umane e quindi nella concezione stessa dello stare al mondo. E chi, come Albino, non è capace di adeguarsi e, al tempo stesso, non vuole adeguarsi a queste mutazioni è destinato a soccombere. Perché neanche il sogno elegiaco della campagna lo potrà salvare, ed egli stesso si avvede che la campagna è un'effimera isola felice che lo lascia impotente e solo con se stesso di fronte ai suoi “mali”.
Ma Albino Saluggia cercherà fuori dalla fabbrica anche quell'umanità e quell'affettività che sono suoi bisogni profondi di cui vive tutta la loro carenza e che, illusoriamente, aveva creduto di poter trovare dentro la fabbrica. Perché in Albino vi è quella sua “tristezza dell'infanzia” in cui si annida, sin da allora, un rapporto di amore/odio per sua madre nei confronti della quale nutre quel suo sospetto, sorto quand'era bambino, che ella abbia tradito suo padre, avendo ciò indotto in Albino un trauma mai affrontato e risolto. La cui più evidente conseguenza è quella sua congenita difficoltà di rapporto con le donne, nelle quali egli cerca e idealizza una purezza che però nella realtà concreta delle figure femminili che incontra e conosce non troverà mai. Ma in questa sua ricerca ostinata, se pur non risolta, di affetto Albino rivela quei suoi nuclei profondi di autenticità e di sensibilità di fronte ai quali la sua diversità e la sua debolezza assumono un significato e un valore diversi. Le sue difficoltà e i suoi problemi non sono la conseguenza di una personalità malata, subalterna o gregaria. Albino Saluggia non è un inetto o un incapace né, tanto meno, un matto o un paranoico, sebbene spesso si comporti come tale. Albino è invece una persona reale, che lancia un grido di ribellione e di aiuto al tempo stesso. Una persona che nella sua umana irregolarità afferma quella sua irregolarità e cerca di darle giustizia. E, come avverrà alla fine del romanzo, nel constatare l’irrisolvibilità di quella sua diversità, rispetto alla quale non vi sono più mediazioni possibili, Albino rivela tutta la sua irriducibilità alla 'normalità'. Perché Albino non lotta contro lo sfruttamento lavorativo, né contro le sue condizioni oggettive, ma contro delle condizioni ancor più dure e dolorose che attengono “il fattore umano”, nei confronti delle quali il contesto della fabbrica - la quale diventa, a questo livello, metafora del mondo - è sordo e cieco. Tanto che anche la componente istituzionalmente deputata a svolgere compiti antagonistici dentro la fabbrica si rivela incapace di soccorrerlo, priva, come essa è, degli strumenti e degli schemi atti a comprenderlo.

E, attraverso il suo essere portatore di quei suoi bisogni soggettivi e interiori, individuali ed esistenziali, Albino non solo afferma il valore di quei bisogni ma, di fatto, svolge un'impietosa demistificazione della disumana razionalità della fabbrica e, attraverso di essa, del mondo. Ma questa, che è e resterà la sua forza, è e resterà anche la sua debolezza e in quell'excipit con cui si conclude “Memoriale” essa sarà affermata come una definitiva verità, che è la definitiva verità di Albino Saluggia e di tutto il romanzo: “A quel punto ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto”.

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