La strage

Un piccolo racconto concepito quasi per divertimento sul filo della memoria, scritto in tempi non sospetti, quando della COVID-19 nessuno, ma proprio nessuno sapeva ancora niente. ()
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Un tempo un uomo di sessant’anni era considerato vecchio e una donna decrepita, tutti già belli e pronti per la Baggina o, in drastica alternativa, per viale Certosa.

L’Ambroeus Broggini, un nome un programma, di anni ne contava 85 e quindi era ritenuto un morto che parla (un 48 secondo la smorfia dei napuli) e che cammina anche se di camminare ormai non ne voleva sapere. Mi fanno male i piedi diceva, mi fanno male le gambe, mi sento molle come la pelle dello stracchino, mi fa male tusscòss. Gli faceva male tutto ma, malgrado l’età, non voleva per casa nessuno, dopo aver sepolto la moglie una decina di anni prima.

Nella casa di ringhiera dove viveva non gli mancava niente, la Pina gli faceva il bucato e un po’ di pulizia, la Bice gli preparava, tanto che era dietro a preparare per la sua numerosa famiglia, un piatto di minestra o di pastasciutta, il Gino andava su a fare quattro chiacchiere, e una partitina a scopa davanti a un quartino di vino, e poi, ogni tanto, arrivava il Tino che era il suo figlio e gli portava un po’ di frutta, un cartoccetto di giambone, un tocco di grana.

Non che l’Ambrogio vivesse di carità, anzi. Aveva, per sua fortuna, una buona pensione grazie a più di quarant’anni di lavoro in un giornale cittadino in qualità di magazziniere, per cui poteva permettersi di slungare qualche ghello alla Pina e alla Bice per i loro servizi e financo al Tino che non se la passava proprio bene con il lavoro. Quello che non voleva però sentire era di ritirarsi in una casa di riposo che considerava, non a torto, l’anticamera dell’inferno, anche perché lui in paradiso non contava proprio di andarci.

Per l’Ambroeus le giornate erano un po’ tutte uguali, estate e inverno. Visto che usciva pochissimo di casa, giusto quando non ne poteva fare a meno: un paio di volte l’anno per andare al cimitero a trovare la moglie e scambiare quattro chiacchiere sulla tomba, o dal dottore Luisoni per una visita, ma era più facile che fosse il Luisoni a passare da lui per controllare se era ancora vivo, almeno.

Nella porta lo conoscevano tutti e anche i sassi sapevano che l’Ambrogio era un po’ burbero ma tutto sommato buono come un piatto di trippa con i fagioli borlotti.

Da giovanotto aveva fatto la sua parte, aveva lavorato anche durante la guerra perché il giornale non aveva mai chiuso e nel magazzino che mandava avanti come un treno svizzero aveva anche nascosto un paio di partigiani e una discreta quantità di volantini sovversivi con in aggiunta qualche copia de l’Unità clandestina.

Non aveva dunque nulla da rimproverarsi, una vita esemplare da bravo lavoratore, paziente con la moglie che, a sua volta, era stata molto paziente con lui, pazientissimi entrambi con il figlio, cresciuto secondo severi principi, anche se il Tino era mica tanto sveglio, un po’ appannato per non dire indormento.

Politicamente era sempre stato più che corretto, schierato con i suoi compagni lavoratori, iscritto, dopo la guerra, alla cellula del Partito della sua azienda poligrafica. Non si era mai fatto mancare neanche uno sciopero, sia di quelli politici contro il governo ladro sia di quelli economici contro il padrone ladrone.

Accadeva così che alla sua veneranda età si lasciasse ancora andare a qualche imprecazione contro i fazzoletti da cui, a suo tempo, aveva anche assaggiato una qualche cucchiaiata di olio di ricino, per non dire poi dei preti che, in quanto categoria, non gli erano mai stati simpatici.

Appena era stato collocato a riposo dalla ditta, contento come una pasqua, prendeva la sua bella bicicletta nera con i freni a bacchetta e si concedeva lunghe passeggiate persino a Chiaravalle o all’Idroscalo. D’inverno, andava a giocare a carte con gli amici al casello del dazio che era stato trasformato in sezione dell’Associazione combattenti e reduci. Qualche volta ci scappava anche una partita a bocce o una sfida al gioco della rana che il flipper non era ancora arrivato nella civiltà. Poi, invecchiando, stava sempre più spesso chiuso in casa, dove passava quelli che dovevano essere i suoi ultimi giorni a rivangare fatti di cinquanta o sessant’anni prima e a ricordare compagni, amici e parenti del tempo che fu. Essere arrivato pressoché indenne a 85 anni lo metteva in una condizione particolare e, a volte, gli faceva anche un po’ perdere il senso della misura e del tempo. Durante quelle giornate tanto lunghe e tanto uguali a se stesse, al posto delle gambe che erano ormai troppo stanche, quello che camminava era il cervello. La memoria e le memorie affioravano in continuazione, ancorché un filappero confuse.

Bastava un piccolo appiglio, o forse neanche quello, per avere davanti agli occhi la portinaia che con la scopa in mano rincorreva i bambini che strillavano in cortile. Era sufficiente un nonnulla per rivedere sulla porta del negozio il panettiere che, alle sei della mattina, prima di andare a letto, si fumava l’ultima sigaretta. L’Ambrogio, che era sulla strada della bottega, si fermava a fare due chiacchiere, qualche battuta al volo sul freddo, sul caldo e sulla pioggia, qualche apprezzamento sul Pepin Meazza che domenica aveva fatto un gol di quelli che non si dimenticano facilmente. Un alito di vento, abbastanza raro a Milano, gli ricordava i cappelli dei giornalisti che volavano via. La differenza di classe stava allora anche in quello. I giornalisti, ben vestiti, avevano tutti un cappello a larghe tese, un Borsalino o un Barbisio o un Panizza, elegante e sobrio, tipo quelli che vendeva e vende ancora il Melegari in Paolo Sarpi. Gli operai invece si calcavano in testa un berretto di lana o un basco che schiacciava giù i capelli che dopo toccava tirare fuori il pettinino per rimetterli a posto. Ma almeno quello non volava via al vento. E quella volta che il Pessina era volato giù in cortile dal terzo piano? Mamma mia che stremizzio che, di subito, aveva pensato che era morto. Ma poi lui e il Gervasoni, di cui i meglio informati dicevano che svolgesse il mestiere di gratta, lo avevano trovato malandato ma vivo dentro il cassone del furgone del Pedretti.

L’Ambrogio ricordava perfettamente come era magro il Lissa quando era ritornato dalla prigionia in Germania e come erano commosse l’Angela e la Carla quando se l’erano trovato redivivo sull’uscio di casa. E ricordava benissimo persino la bicicletta del Gino legata al tubo dell’acqua che gli era venuto anche in mente di fargli uno scherzo ma poi non se ne era fatto niente.

Gli accadeva allora, a volte, mica sempre, che quanto andava a trovarlo il figlio lo interrogasse su che fine avevano fatto questo e quello. Il Marietto quello che lavorava con lui in magazzino? Papà è morto da un pezzo, gli rispondeva il Tino. E la Nilde che viveva al quarto piano? Morta anche lei. E cosa era successo al Gildo che c’aveva il negozio di panettiere? Morto e sepolto. E l’Enzo, quello venuto su con la piena dalla Puglia prima della guerra? Andato, per sempre. Insomma a ogni nome ricordato gli veniva risposto che aveva fatto una brutta o una bella fine, ma sempre fine era. E il Pessina? L’è mort, papà, l’è mort.

E l’Ambrogio pensava e ripensava a quei nomi che erano state persone, volti, gesti, parole, odori e rumori e non si capacitava che fossero tutti morti, che non ci fossero più. Li vedeva ancora lì ad arrampicarsi sulla scala o a mettere i bastoni francesi nel sacchetto o a indossare la tuta prima del lavoro e a togliersela prima di andare a casa… E che fine hanno fatto il Lissa, l’Angela, la Gina e l’Adriana? Hinn mort tucc, rispondeva il Tino, come se stesse rispondendo al rosario che, per altro, in casa sua nessuno aveva mai sgranato.

Dopo averci ruminato per un pezzo, l’Ambrogio guardava il figlio e sbottava: "Allora c’è stata una strage? Non può che essere stata una strage perché non possono morire tutti così, improvvisamente, ieri c’erano e oggi non ci sono più…". E concludeva smarrito l’Ambrogio: "È stata proprio una strage". Stupito che lui fosse ancora lì a raccontarla, miracolosamente scampato a quella ecatombe di massa, a quel massacro di tanta povera gente, che lui aveva conosciuto e frequentato durante una vita intera, tutta brava gente, senza colpa e senza peccato.

E, prima di addormentarsi per quello che poteva anche essere l’ultimo sonno, pensava che la vita era proprio strana.


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Re: La strage
04/04/2020 Licia Betterelli
Grazie.
Toccante perché quella delle perdite dei coetanei comincia ahimé ad essere un’esperienza condivisa.


Re: La strage
02/04/2020 Paola pardi Pardi
Bello,toccante,milanese.Perfettamente in linea con tutti gli scritti di Massimo Cecconi. Grazie


 
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