Intervista a Moni Ovadia

In occasione dell’incontro sul tema “”Il migrante che è in noi, stranieri a noi stessi”, che si terrà presso Spazio Oberdan il 29 gennaio prossimo, abbiamo chiesto a Moni Ovadia di introdurre i contenuti dell’iniziativa. ()
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Qual è il senso dell’incontro sul tema “Il migrante che è in noi”?
La riflessione che terrò a Spazio Oberdan attiene a un problema che non viene mai analizzato per la tendenza che c’è in questa società a rimanere in superficie, per lo meno non viene mai analizzato nei talk show politici, negli scontri e nelle polemiche che sono sempre più uno starnazzio.
La mia riflessione parte da uno straordinario saggio di Julia Kristeva, psicoanalista, sociologa e filosofa bulgara naturalizzata francese, intitolato “Stranieri a se stessi”.
Nella introduzione al saggio, che s’intitola “Toccata e fuga per lo straniero”, la Kristeva ci fa capire che noi paventiamo nello straniero che viene da fuori, nel migrante, il migrante e lo straniero che sono in noi.
Perché l’uomo che viene definito dal suo passaporto, dai lacci e lacciuoli delle convenzioni burocratiche si sente protetto. Ciò che teme è di ritrovare in se stesso l’uomo integro, l’uomo nella sua fragilità. Allora quel migrante fa entrare in vibrazione le corde, in risonanza, con il migrante e lo straniero che è in noi. Nella parte meno conformista e più libera, ma al tempo stesso, in moltissimi, la parte più spaventata.
Ecco perché spesso reagiamo con tanta ostilità, perché abbiamo paura e la paura è un sentimento molto molto profondo.

Come si può superare questa “fragilità”?
Non esiste una vera civiltà, una vera etica di giustizia, senza che questa parta dall’etica dello straniero.
Ce l’ha insegnato la Bibbia e il comandamento più ripetuto nella Torah è: “Amerai lo straniero come te stesso, ricordati che fummo stranieri in Egitto…”.
E’ ripetuto nel Vangelo e San Paolo mette in bocca a Gesù la frase: “Ciò che fai allo straniero lo fai a me”.
Noi italiani siamo stati un popolo di emigranti. Nell’arco di un secolo, trenta milioni di italiani sono emigrati fuori dal Pese. Quattro milioni e mezzo di questi migranti italiani erano, come li chiamiamo oggi, “clandestini”.
Non è possibile procedere per questa via, bisogna rifiutare i respingimenti, veri e propri crimini contro l’umanità travestiti da buon senso della realpolitik, questo infame concetto che tanti lutti ha portato alla storia dell’umanità.

Qual è la tua posizione sul Giorno della memoria?
Ci avviciniamo al Giorno della memoria, non illudiamoci di cavarcela con il metterci con disinvoltura uno zucchetto in testa e celebrando ipocritamente un giorno mentre ci comportiamo esattamente come coloro che respinsero gli ebrei quando cercarono di salvarsi, e con loro anche cinquecentomila rom e sinti, disabili e antifascisti di ogni bandiera…
Perché il Giorno della memoria rischia di diventare, e secondo me lo è già diventato, il giorno dell’ipocrisia e della falsa coscienza.
La memoria è un progetto per il presente e per il futuro. Se noi vogliamo risarcire l’infinito dolore per i morti nella Shoah, nel Samudaripen e nello sterminio nazista dobbiamo comportarci oggi secondo i principi della Carta universale dei diritti dell’uomo: tutti gli uomini nascono liberi e uguali, pari in dignità e diritti.

Grazie e appuntamento al 29 gennaio presso Spazio Oberdan.

Ingresso libero sino a esaurimento posti a partire dalle ore 20.30.

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