Razzismi 2.0

In tutto il mondo dilaga l'odio online, la diffusione di linguaggi reazionari e azioni violente attraverso il web. Gli educatori, gli studiosi, preoccupati, esaminano le azioni per contrastare questa “onda nera”. Ne tratta anche Stefano Pasta, l'autore di “Razzismi 2.0” - Analisi socio-educativa dell'odio online” ed. Scholè-Morcelliana (2018). ()
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Qui di seguito l'intervista che ci ha rilasciato Stefano Pasta.

L'argomento è di grande attualità, cosa ne ha determinato la scelta?
E' il mio lavoro di ricerca per il dottorato in Pedagogia, presso l'Università Cattolica, in cui mi occupo di educazione alla cittadinanza nell'ambiente digitale e nella prospettiva interculturale.
E' la fotografia dello stato sociale attuale, in cui si è arrivati a normalizzare, attraverso i social network, l'uso della parola razzista, conferendo una continuità tra on e off line, dal virtuale al reale, come è confermato dal crescendo continuo delle aggressioni ad immigrati. Proprio in questi giorni il recente rapporto di Lunaria documenta 304 casi di discriminazione e razzismo in sei mesi, 68 aggressioni e violenze fisiche tra aprile e settembre 2018.
La diffusione sui social network porta a modificare il discorso sul razzismo e in generale l'hate speech. Sebbene l'approccio sanzionatorio sia insufficiente, in assenza di un grande sforzo educativo e preventivo, anche dal punto di vista giuridico vi sono delle lacune per colpire i crimini d'odio. L'aspetto giuridico è poi limitato dalla transnazionalità della Rete: si usa Facebook o un altro social in Italia, dove il partito fascista è illegale, ma la sede legale del sito è negli USA, dove invece la giurisdizione è diversa e il partito fascista, quello nazista e il Ku Klux Klan, ad esempio, sono associazioni legali e danno anche indicazioni di voto.


Siamo tornati indietro di 80 anni, possiamo dire alla “banalità del male”?
La letteratura razzista della prima metà del '900 vantava istanze biologiche - antropologia fascista e nazista -; nella seconda metà del '900 i razzismi cambiano, l'istanza è culturale (“non possiamo vivere insieme ai musulmani che sono troppo diversi da noi” si sostiene), però in questi ultimi anni è ritornata l'istanza biologica (il caso della ministra Kienge associata nel web a scimmie e banane), su basi diverse: nessuno crede veramente a un discorso non scientifico, ma si dice ugualmente. Questa è la deresponsabilizzazione dello stare in Rete, ovvero la liberazione della parola razzista.

Il digitale quindi ha contribuito, a questo sfaldamento sociale?
Quando si deve prendere una decisione, si può agire in due modi: il primo è lento, razionale, il secondo è veloce, intuitivo, non riflessivo, che consente tuttavia di aumentare il numero delle decisioni da prendere. Le emozioni contano più della veridicità delle affermazioni. Inoltre l'autorialità non esiste nel 2.0. La rapidità e il presunto anonimato rendono l'odio potenzialmente più virale.
Nel gennaio 2018 la ministra Fedeli ha varato un Curriculum di educazione civica digitale, per educare al pensiero critico e alla responsabilità, per promuovere prevenzione e cittadinanza in modo nuovo.
Occorre educare non solo il fruitore dell'informazione dei social, bensì anche il produttore, che tutti noi siamo divenuti usando smartphone e computer. La responsabilità è individuale e collettiva, ma anche dei gestori dei siti. Certo sarebbe riduttivo e sbagliato dare la colpa all'ambiente digitale, vero è che ci sono delle caratteristiche che rendono più facile la propagazione del pensiero scorretto. Tuttavia, conoscendole, possono essere usate anche in chiave antirazzista e di educazione alla cittadinanza.

Appare arduo parlare di limiti, perché subito si strilla al complotto contro la libertà del web!
La rete sarebbe “aprioristicamente” democratica e libera: vi si può dire quello che si vuole. E' un'idea vecchia e superata. Certo la rete può essere usata come strumento democratico e di libertà.
Sappiamo però che persistono ombre sulla manipolazione della rete, sulla propagazione delle fake news, sulla violazione della privacy. Dobbiamo scegliere in quale società vogliamo vivere, affermando non solo una “libertà da” obblighi e lacci, ma anche una “libertà di” aderire alle norme di civiltà del parlare e vivere insieme.

Come agire, quindi, oppure “non ci resta che piangere”?
Il messaggio del libro è che c'è tantissimo da fare e tutti, a livelli diversi, hanno la responsabilità di non essere indifferenti di fronte alla normalizzazione dell'odio e del razzismo, secondo la visione di Liliana Segre. Propongo alcune iniziative per contrastare l'odio. Cercando online ho incontrato anche campagne virali come quella di contrasto all'islamofobia come “# Not in my name”. Dobbiamo tener conto che la vita on line è reale, è realtà aumentata.
Occorre educare alla responsabilità in rete. Fino a pochi anni fa il discorso sulla rete verteva unicamente sulla competenza tecnica e non sulla responsabilità civile. E' mancata l'attenzione a come ci si comporta, perdura l'autogiustificazione, si ironizza sull'uso del termine “razzista”, dichiarando che si trattava solo di uno scherzo e pretendendo di non essere presi sul serio. Non si è acquisita la consapevolezza del proprio agire e dell'inevitabilità delle conseguenze.
Il compito del pedagogista, degli insegnanti, dei genitori e di tutti i cittadini diventa l'insegnamento del senso di responsabilità, di pesare le parole, degli effetti del proprio agire. Saremo cittadini digitali non solo se sapremo usare computer e smartphone, ma soprattutto se saremo capaci, di fronte all'hate speech e ai comportamenti scorretti nel Web, di essere soccorritori e non solo spettatori. Non indifferenti.

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