Artediparte. Donna o madre? Se ancora questo è il problema…

La Grande madre, una mostra che sarà proposta a fine estate dalla Fondazione Trussardi a Milano, è lo spunto per una riflessione sulla maternità, ispirata dai film Mia Madre e Hungry Hearts, e da Le mani della madre di Massimo Recalcati.

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willendorf idolo
l tema della maternità è importante per Artediparte. Nel bene e nel male. Lo si associa alla potenza generativa femminile.
Pare sia questa l’impostazione di Gioni, il quaratunenne curatore della Biennale 2013, che prepara la mostra La grande Madre, prevista a Palazzo Reale dal 26 agosto al 15 novembre.
Potrete leggere a tal proposito l’intervista in calce. Ma può essere accostata - è una delle Endoxa, le opinioni più o meno comuni e condivise nel nostro tempo - alla negazione di un’espressività femminile creatrice altra dalla maternità stessa, che contribuisce all’imbavagliamento e alla marginalizzazione delle donne artiste nella società.
Insomma, la creazione artistica non sarebbe altro che il modo di restare in cinta degli uomini, mentre le donne, che restano in cinta davvero e dedicano molta parte delle proprie forze alla prole, di creare non hanno né tempo né energie, né, a ben vedere, un autentico bisogno.

Vero è che la maternità è ancora, purtroppo, un problema per le carriere professionali e artistiche delle donne, a causa delle molte carenze strutturali e culturali della nostra società. E che la Fondazione Trussardi, promotrice della mostra di cui sopra, metta al centro della riflessione culturale questo tema, è davvero una buona notizia, se ci richiama alla necessità di proteggere la maternità delle donne, senza detrimento per le loro legittime aspirazioni all’autonomia, alla libertà, al protagonismo politico.

Oggi vogliamo sottoporre al vostro giudizio e commento tre opere sul tema, in cui ci siamo recentemente imbattute. Si tratta di due film, uno ancora nelle sale e uno appena uscito di programmazione, che ha suscitato molte discussioni, e di un libro veramente fresco di stampa. Tutte testimonianze della vitalità dell’argomento in questo momento.

Mia madre, di e con Nanni Moretti, è un film bellissimo e vero, che vorrei leggere in chiave metaforica a partire da una caratteristica del personaggio: la madre del regista, morta nel 2010, le cui vicende sono raccontate nel film, nella pellicola è professora di latino.
La generazione successiva alla sua smarrisce il senso di questa materia scolastica e la successiva smette di studiarla quasi completamente, nonostante l’affetto così saldo per la nonna. Si tratterebbe, quindi, del distacco della società italiana dal retaggio materno della sua cultura umanistica, così come è stata vissuta nel Novecento dalla borghesia. Il salto è fatto, resta soltanto una grande, irreparabile mancanza di senso, e l’incapacità di decidere cosa fare della propria vita. L
a morte di questa particolare madre simbolica, travolge i figli completamente, svuotati, nel lavoro e nella vita personale, mentre lei, la madre in procinto di morire, è l’unica a poter articolare seppure a fatica, la parola “domani” con cui il film si conclude. Una morte che lascia un vuoto incolmabile a fronte di un’impossibilità di tramandare e passare il testimone? È la nostra ipotesi.

Ben diverso per impatto emotivo il film di Costanzo Hungry hearts, dal romanzo di Marco Franzoso Il bambino Indaco. Non lascia scampo e richiede una presa di posizione sull’immagine tradizionale della maternità. Film importante proprio per le polemiche che può far nascere, e che per essere compreso, va letto e riletto, rovesciando i ruoli di carnefice e vittima, qui inestricabilmente implicati. Una riflessione salutare, perché mostra come la difesa a oltranza del diritto del bambino finisca per negare le esigenze e le fragilità della madre, con un risultato sconcertante e dirompente, cui si arriva appunto negando alla Donna libertà di scelta e diritti.
Rifiutandosi di prendersi cura innanzitutto di lei e della relazione con lei, si inchioda la Donna a una maternità distruttiva per sé e per il/la figlio/a. La coppia inseparabile Donna - bambino, la tutta - madre, direbbe forse lo psicanalista Massimo Recalcati, così centrale nell’iconografia sacra, e nella cultura popolare, in questo film è posta sotto l’obiettivo fisicamente e moralmente deformante del regista, e mostra il suo potere devastante. La risposta della madre a questa situazione, sostenuta dall’iniziale indifferenza del padre, incarna l’ideologia dell’istinto materno, di cui sarebbero dotate proverbialmente le donne, che snatura la possibilità, tutta umana, per ciascuna di noi di vivere l’esperienza della maternità in modo singolare e originale.
Il film dà un saggio inoltre dello sconfinato potere affettivo - ritorsivo della madre nel contesto familiare, che può condurre a deterioramenti fatali. L’innesco spaventoso della rivalità suocera – nuora potrebbe essere frutto, di nuovo, dell’incapacità di tessere relazioni di complicità e di tradere  - tornando al latino della madre di Moretti - da donna a donna, insegnamenti di vita, non di morte.

Un po’ criptico, lo so…. ma in caso non l’abbiate ancora visto, non vogliamo rivelarvi troppo la storia. Non perdetelo! È un film importante, se ci vuol riflettere sulla maternità. E non è un caso che le immagini di più straziante tenerezza in questo film siano quelle che mostrano insieme madre e figlio. Figlio maschio.
Certe volte viene proprio il sospetto che nel parlare di maternità, ci si riferisca più volentieri e più spesso al rapporto madre - figlio, che non a quello madre - figlia. Si tratta di cose alquanto differenti, no? È interessante che nel film di Moretti, il personaggio centrale, ritratto nel suo rapporto con la madre, sia proprio una donna, nel film Margherita Buy, che fa il suo stesso mestiere, quello di regista. Quasi che Moretti si metta da parte, cioè si metta anche accanto al personaggio – come raccomanda la regista ai suoi attori - sottolineando così come il nodo centrale, il passaggio di testimone da una generazione all’altra, almeno secondo la nostra ipotesi, sia proprio il rapporto da donna a donna.

L’ultimo libro di Massimo Recalcati, Le mani della madre (Feltrinelli) è un caso molto interessante. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno recita il sottotitolo.
Parlare di madre, senza parlare di venerabile eredità e tradizione è quasi impossibile… venerabile perché nell’idea di madre si concentra quanto di più sacro gli esseri umani abbiano potuto concepire. Fino al più recente passato qui da noi, e nel presente in altri contesti geografici, essere madri significa essere disposte  - fino a che punto liberamente, e non, almeno in parte, per coercizione della società, questa è una grossa domanda – essere disposte letteralmente a perdere la vita per un nuovo essere umano. Per il domani.
Sia detto ciò, per non dimenticare, ma affermare in pieno, il valore e la dignità dell’essere madri sia nella vicenda storica sia nell’attualità. Perché essere madri significa sacrificarsi per il futuro, mettere da parte il proprio sé per offrire qualcosa, ad altri, in dono. Una cosa che forse la madre di Moretti sa fare, ma non insegnare ai propri figli, cioè a noi, noi tutte e tutti.

La questione della diversità fra madre e padre si pone ab origine nel testo di Recalcati: questo libro, dedicato alla madre, nasce, per affermazione dell’autore, da domande, di solito femminili, sull’importanza del materno, dopo diversi lavori sul ruolo paterno e sulla necessità di “tornare al padre”.
Ci piacerebbe porre all’autore qualche domanda. Discutiamo delle figure della madre e del padre, dunque a partire da una differenza irriducibile fra due ruoli, che implica – se noi non ci sbagliamo -  necessariamente una differenziazione simbolica fra maschile e femminile. Il fatto che tale funzione possa non essere necessariamente legata al sesso biologico o all’espletamento di una funzione biologica vera e propria, non toglie che sia necessaria una distinzione.

E allora noi ci chiediamo: perché il processo di sviluppo infantile in questo libro non è ben chiaramente distinto fra i due generi fin dall’inizio? Come mai si arriva a parlare di rapporto fra madre e figlia solo a pag. 172 (con piccola anticipazione alle pagg. 168-69) in un libro di complessive 184 pagine? Non avrebbe senso differenziare fin da subito tra figli e figlie? Il rischio per la lettrice di oggi, interessata al tema, non è proprio quello di scomparire dietro al figlio, maschio, proprio come la povera madre di Hungry Hearts?

Espressioni come madre soccorritore (p. 22), contenitore della vita del figlio (p.57), madre come “nome della figura dell’altro - con la o, non con la a -  (p. 24), id est l’uso estensivo del solo maschile in quasi tutto il libro accanto alla trattazione finale e marginale del tema della figliolanza femminile, debbono farci ritenere che l’autore si riferisca al solo figlio maschio. Possibile? Lacanianamente “l’amore per il nome proprio” non deve distinguere fin da subito un nome femminile da uno maschile? Il figlio non ancora nato può ben essere anche una figlia… e perché nel testo di questo importante studioso, si riscontra questo ostinato rifiuto nell’uso del femminile, proprio come in tanti giornali e telegiornali italiani?

Un’ultima domanda: tutto il libro - pregevole e interessante oltre ogni nostro dire – è interamente attraversato dalla distinzione categoriale fra Donna e madre. Una contrapposizione concettuale fra materno e femminile che, apparentemente messa in discussione come retaggio (eredità, ancora eredità!) del patriarcato, e subito rifiutata (p. 12), nondimeno ritorna, ed è adoperata con un’implicita polarizzazione: il materno come luogo dell’offerta, del dono e della presenza, è declinato in modo positivo, e il femminile, inevitabilmente si ritrova a fungere da polo negativo, luogo dell’altrove e dell’assenza. Dell’altro dalla madre, che ovviamente, e per le ragioni che sostenevamo noi stesse precedentemente, non è altro che il Bene assoluto… ed ecco che il concetto di Donna, nato dall’opposizione con il materno, non può che prestarsi a essere il Negativo: la Strega, la Seduttrice, la Donna in carriera… fate voi.
Sempre di una non-madre si tratta.
Che esistano brillanti dottore, professore, architette, avvocate, pittrici e archeologhe che sono al contempo ottime madri e donne affascinanti… è l’unico conforto in tanta amarezza. Scherziamo, certo. Ma perché ancora una volta se sei madre non sei Donna, e viceversa? Queste categorie non andavano messe in discussione? Come mettere in discussione qualcosa, utilizzandolo per tutto il tempo?

Non vorrei che qualche madre, affannata e divisa fra i molteplici compiti che alle donne la nostra società continua pesantemente a richiedere, leggendo questo libro, ne potesse ricavare l’impressione che, in fondo va bene così. Semplificando, visto che la-tutta-madre non va bene, ma neppure la-tutta-Donna  - ma non sono le donne a fare figli/e? - possiamo continuare così, accontentandoci dei pochi asili e della scarsa rappresentanza politica che abbiamo.

Se la madre sta da una parte e la Donna, con il solito sguardo di sfida e seduzione, tutta da un’altra… non finirà che le donne avranno sempre da gestirsi tutto da sole, come equilibriste, vita e carriera, mentre gli uomini, che sperabilmente faranno i padri, se ne staranno a guardare?

Mia cara lettrice indaffarata, capitata per caso magari anche su questo articolo, vorrei che vagliassi l’ipotesi che la contrapposizione fra Donna e madre, e l’opposizione tra maternità fisica e creatività intellettuale, che a ben vedere ne sortisce, potrebbero essere considerate tutte fantasie.

Su cui ci sarebbe da chiedersi: cui prodest? Mannaggia, questo latino…

La questione della madre, amata Pachamama nostra, Dea - madre che sei nei cieli, in terra e in ogni Donna, è la genealogia femminile: come dalle donne possano finalmente nascere altre donne. Donne altre.

Loredana Metta


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