Non date da mangiare ai piccioni

Riceviamo da un nostro lettore un livido racconto ambientato nel rilevato ferroviario di via Sammartini/Ferrante Aporti.
Buona lettura!
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rilevato ferroviario

Dopo gli abituali venti minuti spesi per trovare un parcheggio accostò in via Ferrante Aporti, alla base del lungo percorso rilevato dei binari della Stazione Centrale di Milano. Scese dalla macchina, chiuse la portiera e girò velocemente intorno all’auto per togliersi dal marciapiede, ricoperto dagli escrementi dei piccioni che vivevano a centinaia sui muraglioni alti due piani.

Doveva passare sotto la ferrovia per raggiungere casa sua in via Sammartini. Si avviò verso l’imboccatura del tunnel più vicino, passando davanti alle saracinesche sbarrate di quelli che una volta erano officine, magazzini, negozi. Quasi tutti ormai chiusi e abbandonati, marchiati con un bollo tondo di vernice bianca che significava “da non affittare più”.

Ne restavano pochissimi: lo scatolificio, il market di surgelati, la palestra, il discount, il locale da ballo latinoamericano Donde te sientes en tu casa! e poi, in fondo in fondo, il dormitorio dei frati con la madonnina nella grotta di Lourdes di cemento. Tutti fino alla scadenza del contratto d’affitto con le Ferrovie, in attesa della futura misteriosa ristrutturazione dell’immenso complesso di sotterranei che, diceva la panettiera, sarebbe diventato un outlet di lusso degli stilisti.

Prima di entrare nel tunnel guardò in alto. I cornicioni erano coperti di piccioni che arrivavano e partivano di continuo, oppure si accalcavano in gruppi con le teste schiacciate contro il muro: tentavano di dormire sotto la luce implacabile delle altissime batterie di fari gialli. “Il lager dei piccioni”, pensò. “Poveretti, ma che razza di vita fanno sotto questa luce? Se ne stanno tutti con la testa sul muro per cercare di ripararsi gli occhi. Ma ce la faranno a dormire?”.

Si ricordò di avere letto, in un articolo di un naturalista, che gli animali delle zone urbane sempre illuminate a giorno diventano pian piano completamente pazzi: al tramonto ricominciano il ciclo delle attività della giornata, cercano continuamente cibo, si ingozzano e si fanno venire le peggiori malattie da consumatore di junk food.

“Non possono neppure fuggire a vivere da un’altra parte: sono nati qui - Dio solo lo sa come sono riuscite le loro madri a covarli - e l’istinto li riporta sempre sul loro cornicione. Un po’ comincio a capirle, quelle vecchiette che gli portano gli avanzi di pane. Se solo non li buttassero in mezzo ai marciapiedi…”

Anche nel tunnel, la stessa luce giallo sporco. Superò i vecchi fasci di binari in disuso annegati nell’asfalto che attraversavano strada e marciapiedi sparendo nelle gallerie laterali dalle enormi porte di ferro incrostate di ruggine. Una delle porte era semiaperta: era stata tolta la pesante catena che la chiudeva, e una squadra di operai lavorava attorno a una piccola ruspa alla luce di un faro. Dovevano aver cominciato a sgomberare le gallerie per la ristrutturazione.

La mattina, dopo colazione, notò nel frigo la scatoletta di chicchi di mais aperta da qualche giorno. “Nell’insalata non ce li metto più, a pescare non ci vado fino a primavera, invece di buttarli nell’immondizia tanto vale che li dia a quei piccioni morti di fame”.

Prese anche gli avanzi di pane secco del giorno prima. In strada gettò tutto a terra, non sul marciapiedi come le vecchiette, ma proprio sulla terra, nell’aioletta spelacchiata dello spartitraffico. Così era più ecologico, no? Tanto, il Comune aveva smesso di raccogliere l’”organico” a parte e lo gettava negli inceneritori assieme a tutto il resto…

Un primo, folto gruppo di piccioni si levò in volo dai muraglioni e si gettò sul cibo. Altri li seguirono, e in pochi secondi tutti si accapigliavano attorno alle ultime briciole. Tutta la parete di fronte a lui si agitò, ma non se ne mossero altri: era chiaro che ormai non c’era più niente.

“Scusate ragazzi, è proprio poco, ma è quello che avevo in casa” pensò imboccando il tunnel. “Però almeno qualcuno di voi ha la pancia un po’ più piena e stasera dormirà un pochino. E poi durante la giornata passeranno le vecchiette con tanta altra roba.”


La macchina era per metà coperta di escrementi. La metà dal lato del guidatore, parabrezza compreso. Il marciapiede era scivoloso di guano, l’odore insopportabile e rischiava di prendersi un bel po’ di roba in testa se si fermava lì a pulire il vetro. Spostò l'auto fuori tiro, pulì sommariamente la schifezza e partì per il lavoro con il lava-vetro a getto continuo e i tergicristalli al massimo per triturare e asportare tutto il possibile.

Prese l’abitudine di dare agli uccelli tutti i suoi avanzi, al mattino quelli di casa e alla sera quelli che si portava via dalla mensa aziendale. Lo facevano tutte le colleghe che avevano il gatto, perché no? Era tutto pagato, e almeno gli avanzi sarebbero rientrati nel ciclo naturale regalando qualche istante di riposo in più ai piccioni sempresvegli morti di fame. E per loro fortuna i piccioni mangiano di tutto.

Nel giro di un paio di settimane, i piccioni iniziarono ad alzarsi in volo ogni volta che usciva dal portone o scendeva dalla macchina. Una prima pattuglia volava sopra di lui in cerchio finché non deponeva a terra il cibo; altri decollavano in tre-quattro ondate successive e si gettavano a disputarsi gli avanzi. Quelli che avevano mangiato per primi spesso lo seguivano per un po’; a volte, quando parcheggiava dall’altra parte della ferrovia, anche dentro al tunnel per un pezzetto.

Quella sera, uscendo dalla macchina, si rese conto di non avere nulla per i piccioni: aveva saltato la pausa mensa mangiandosi un pacchetto di crackers davanti al computer. Ne aveva in auto un altro mezzo pacchetto: lo aprì, li sbriciolò, gettò tutto a terra: “Non ho altro, ragazzi, domattina…” Gli uccelli li finirono in un attimo, poi si rialzarono, iniziarono a volargli sopra: dal muro se ne staccarono altri gruppi e si unirono agli altri, lo circondarono come un muro vorticante dall’odore acidulo e disgustoso.

Corse via, si infilò nel tunnel dove di solito non si addentravano; ma gli uccelli lo seguirono, fino alla porta della galleria in ristrutturazione. Gli si posavano sulla testa, le spalle, le braccia come quelli di piazza Duomo con i turisti – iniziarono a beccarlo! La porta era come sempre semiaperta, ma non c’erano operai al lavoro, dentro era tutto buio.

“Mi infilo qui cercando di non inciampare da qualche parte, al buio non mi possono vedere”. Ma fatti pochi passi a tentoni, sentì una sirena di allarme e si accesero luci lampeggianti arancioni, poi due fari accecanti… il sistema anti-intrusione del cantiere.

Corse abbagliato lungo i binari finché all’improvviso sentì sotto di sé il vuoto: cadendo capì che si trattava di una vecchia fossa per la manutenzione dei treni. Il volo gli parve lunghissimo. Cadde sulla schiena, sapendo di avere una gamba piegata sotto. Il colpo lo stordì per qualche istante. Poi cominciò ad avvertire il bagnato del sangue sotto la testa, e… basta. Non sentiva il resto del corpo.

Il bordo rettangolare della fossa fu oscurato dai piccioni che vi si precipitavano dentro. Li aveva addosso, ne era ricoperto, ma poteva sentire solo le unghie delle zampe di quelli che gli camminavano sulla faccia. Beccavano, colpivano, cominciarono a strappare. Un lampo abbagliante e una pugnalata di dolore incredibile: uno gli aveva trafitto l’occhio destro. L’altro fu solo questione di tempo. Per un po’ il buio fu punteggiato dei lampi delle beccate, poi prevalse l’attenzione al sangue che gli riempiva la gola soffocandolo.

I piccioni lasciarono la fossa al mattino, e tornarono a dormire sui loro cornicioni con le teste premute contro il muro – dormivano in pieno giorno, fame e sete finalmente placate.

Per tutto il giorno e la notte successiva i topi completarono il lavoro.

Lo scatto dell’allarme anti-intrusione fu rilevato sul computer centrale del sistema di sorveglianza, appaltata dalle ferrovie a una ditta di Cagliari, solo dopo tre giorni, per via del blackout che aveva lasciato al buio mezza isola.

Subito allertata via web, la centrale operativa di Bergamo delle guardie giurate indirizzò un’autopattuglia sul posto entro 15 minuti, nel pieno rispetto del capitolato di appalto.

Grazie alla patente di plastica quasi intatta le ossa poterono essere prontamente identificate e debitamente sepolte, a spese del Comune perché viveva da solo e non aveva parenti in città: Angelo Colombo.


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