Otto marzo per le lavoratrici. E dopo?

Passato l'otto marzo di buoni auspici, rivolgiamo uno sguardo all'attuale stato del lavoro femminile. Aumento della disoccupazione, gap di genere, assenza di valide misure anticrisi frenano il tasso di occupazione femminile nel nostro Paese.
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Prima di entrare nel merito degli aspetti quantitativi vorrei menzionare brevemente una curiosa ricerca che la dice lunga sulla mentalità professionale nel nostro Paese, nonché sulle contraddizioni che contribuiscono a limitare l'affermazione femminile nel mondo del lavoro.
Assintel (associazione di imprenditrici del settore informatico e telematico) ha condotto una indagine utilizzando sofisticate tecnologie per “ascoltare” le conversazioni nei social network e web sul tema “donne e lavoro”, confrontandole successivamente con quelle di altri Stati Europei. Dalla ricerca emergono sostanzialmente due dati. Il numero di conversazioni sul tema, in Italia, è molto più basso rispetto ai Paesi comparabili per PIL pro capite. L'altro elemento interessante è l'argomento cardine discusso: competenze e carriera per le donne europee, conciliazione famiglia lavoro per le italiane. Considerando la selezione socioculturale e quindi professionale operata dallo stesso strumento web, è lecito pensare che da una parte il mondo del lavoro in Italia offra così scarse prospettive di crescita e carriera da non appartenere al "quotidiano". Dall'altra, sembra incidere ancore fortemente la nostra cultura familiare nel binomio  "colpa-lavoro", fermo restando lo scarso sviluppo delle politiche sociali nel risolvere o ammortizzare il problema. 
 
Ma, condizionamenti culturali a parte, i recenti dati -fonte Eupolis- sul mercato del lavoro in Lombardia nel quinquennio di crisi, tracciano uno scenario complessivamente preoccupante per le lavoratrici.
Dal 2008 al 2013 si sono persi circa 90000 posti di lavoro maschili mentre l'occupazione femminile è cresciuta di 18000 unità ma, in negativo, la crescita è stata tutta nei servizi, in particolare nei lavori di “cura”, sostanzialmente attività lavorative poco qualificate.

Se guardiamo al settore manifatturiero, dove si sono complessivamente persi posti di lavoro di buon livello per retribuzione e inquadramento, i tagli hanno riguardato soprattutto le lavoratrici. Non è un osservatorio attendibile dal punto di vista statistico ma come consulente della piccola impresa, spesso sotto i 15 dipendenti e perciò con una forza lavoro già scarsamente tutelata, le prime vittime delle crisi sono state impiegate e operaie, con ricollocamento di una piccola percentuale a condizioni peggiorative.
Nello stesso quinquennio i dati riportano una crescita del part time femminile del 31% (+ 140000 lavori part time, a livello nazionale circa 1/3 delle lavoratrici sono a part time). Tuttavia questo dato non sempre si traduce in un aumento  del tasso di occupazione femminile  essendo frequentemente involontario e non sostitutivo rispetto al lavoro a tempo pieno anche in termini di qualità.

Nella fascia 15-24 anni, in generale ad elevatissima disoccupazione anche nella ricca Lombardia, il tasso di disoccupazione femminile è  più elevato  di 3 punti percentuali di quella maschile  raggiungendo il 28%. Preoccupa inoltre il numero di giovani NEET che non risultano in cerca di occupazione ma al tempo stesso hanno smesso di studiare e non sono in percorsi formativi. Nella fascia di età 25-29 una statistica nazionale ci dice che mentre i NEET di sesso maschile calano al 16%, le ragazze NEET sono il 25% incluse giovani laureate, a dimostrazione di una difficoltà di inserimento lavorativo di genere non compensata da politiche nazionali volte a facilitare l’ingresso nel mondo del lavoro.
Su 4,3 milioni di lavoratori atipici (partite IVA, contratti a progetto, interinali), le donne sono 1,8 milioni (40% circa). Un dato CGIL sulle partite IVA dimostra come in media le donne guadagnano 6.000 euro in meno annui su redditi netti medi già piuttosto bassi (circa 9000 euro).
Pochi i dati sulle over 50, un’analisi di Reyneri sottolinea la “tenuta” occupazionale solo delle laureate nella fascia di età più adulta.

Questi dati, interessanti nel permettere una lettura delle dinamiche occupazionali recenti, vanno inoltre inquadrati in un contesto nazionale con l'occupazione femminile al 47% circa (dato ISTAT), 12% in meno rispetto alla media europea. Le laureate presentano un tasso di occupazione molto più basso delle loro omologhe europee, a conferma del fatto che nel nostro paese i problemi di una società caratterizzata da un gap di genere si sommano ai problemi di una società poco o per nulla meritocratica.
Le donne guadagnano inoltre in media circa il 72% del salario maschile. Fattore non determinato esclusivamente dalla tipologia di ruoli e posizioni ricoperti ma anche alla discriminazione di genere: a parità di mansioni, una donna ha un salario che ammonta approssimativamente al 85% rispetto a quello maschile.

Concentrandosi sulla fascia più alta del mercato del lavoro, le donne dirigente rappresentano il 12% del totale della categoria, quelle nei CdA il 7% dei consiglieri di amministrazione. Se si escludono le donne appartenenti alle famiglie proprietarie e poche multinazionali che praticano politiche spinte di “diversity management”, le donne top manager nel nostro Paese sono un numero esiguo.
 
È plausibile affermare che i dati attuali sulla occupazione in Italia, mostrano una decelerazione nel tasso di crescita e una dequalificazione nel mercato del lavoro femminile. Nella prospettiva dei futuri “ 8 marzo”, affinché rappresenti un reale momento di festa, è d'obbligo lavorare sia sulla quantità, sia sulla qualità dei posti di lavoro.

Il tema della qualità è particolarmente strategico anche nella prospettiva, da molti studiosi ritenuta estremamente probabile, sulla impossibilità di tornare, nel breve-medio termine, a forti crescite del PIL. Di conseguenza la competitività del paese dovrà basarsi sulla sostenibilità e sulla competenze professionali, del resto già presenti, supportate da politiche occupazionali, di conciliazione e da infrastrutture sociali capaci di sostenere le donne nelle fasi più delicate della loro vita professionale e personale ( inserimento lavorativo, maternità, ricollocazione in età matura etc. )
 
Ma non per ultimo é necessario anche stimolare la formazione di una diversa mentalità, un nuovo sguardo al lavoro da parte delle stesse donne abbattendo il muro di condizionamenti culturali. Significa anche e soprattutto lavorare sui modelli di genere, sull'immaginario, sulla consapevolezza del proprio ruolo nel personale e nel sociale. Probabilmente Il migliore "jobs act" non sarebbe sufficiente se non si adottano soluzioni di tipo sistemico.


Michela Rea
Marzia Frateschi
 

 

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Re: Otto marzo per le lavoratrici. E dopo?
16/03/2014 Michela Rea
Buongiorno e grazie per aver dettagliato i dati sulla "superiorità" scolastica femminile. In effetti interventi incisivi sulla fascia di età dell'inserimento lavorativo, sopratutto post laurea, potrebbero portare dei benefici notevoli


Re: Otto marzo per le lavoratrici. E dopo?
16/03/2014 rodolfo pirola
La condizione femminile è ancora più tragica se si considera che (dati OCSE) in Italia i maschi diplomati della secondaria sono il 70% tra i 25-34enni (+25%), invece le femmine diplomate raggiungono il 75% nella stessa fascia di età (+35%). A quindici anni le femmine hanno competenze in lettura significativamente più alte dei maschi, mentre questi ottengono risultati migliori in matematica, ma di misura statisticamente non significativa.
Le donne iscritte a una Facoltà sono di più (56%), hanno ottenuto alla maturità un giudizio medio alto (87/100) e si laureano almeno un anno prima degli uomini. Tuttavia, il tasso di disoccupazione delle laureate rimane più alto, il 6,7%, contro il 4,1% dei maschi. Anche perché scegliendo in prevalenza corsi di studi umanistici, le donne hanno molte meno probabilità dei maschi di operare professionalmente in campi tecnologici o comunque economicamente più produttivi. In ogni caso, anche a parità di titolo di studio guadagnano meno degli uomini: in genere la differenza è del 10-20%, anche se non di rado raggiunge punte del 30-40%. (da La Stampa del 10/03/2014)


 
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