Il caso Antonia

Antonia Pozzi, ieri dimenticata e fuori moda, oggi di moda e inflazionata. Scopriamola, ma lentamente, ripercorrendo la sua vita e le sue opere.

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antonia pozzi WEB
L’industria culturale ci ha abituato a queste strabilianti altalene. Film, siti, concorsi e commemorazioni, si sprecano sulla giovane poetessa milanese, suicida (un suicidio particolarmente doloroso).

Quarant’anni fa, passando per una piccola via del quartiere Fiera di Milano, andai a cercare notizie su quella targa (Antonia Pozzi, 1912-1938) e le trovai in un’antologia dei Saggi Einaudi, curata curiosamente da un omonimo, Giovanni Pozzi. Nessun altro libro (figurarsi i testi scolastici) riportava qualcosa su di lei, sulla sua vita breve e angosciata, soprattutto sulla sua lirica, che fu apprezzata da Eugenio Montale.
Possiamo cominciare a parlarne dalla tomba dove riposa, a Pasturo, fra le Prealpi lombarde di Lecco, dove la villa di famiglia è oggi il suo museo. Il paesotto è circondato da massi e alberi, i profili tipici delle Grigne palestre di rocciatori. Antonia scrisse una poesia di montagna, non solo perché più volte ritorna il soggetto, perché amava passeggiare qui e amava questa dimora, e perché sulla sponda del lago, a Bellano, ebbe origine dal poeta risorgimentale Tommaso Grossi la linea materna altolocata della poetessa.

La scrittura di Antonia si svolge alle alte quote perché intrisa di ricerca, e la ricerca si disincaglia pienamente, come insegna anche la Montagna incantata di Thomas Mann, più saliamo in alto. Aria rarefatta. Oltretutto lontana da Milano e dalla facoltosa famiglia borghese: il padre, distinto avvocato, cercò di salvaguardare in modi conformisti l’immagine della figlia, innamoratasi perdutamente del suo professore di liceo (indicato con le iniziali A. M. C. nelle dediche). Colpa grave per il perbenismo.
È anche una poesia religiosa? Forse sì, il senso originario del verso è musicale, di danza, ma anche di preghiera a un dio o agli dei in cui riponiamo fiducia. Nella stagione ermetica in cui maturò in pochi anni un vasto canzoniere (425 pagine nell’edizione più recente della Garzanti, Parole), ma anche periodo funestato dalle mitologie provinciali dell’Italietta autarchica, Antonia Pozzi accompagnò verso lo splendore del cielo terso dell’immediatezza lo sviluppo della poesia italiana.
Forse non proprio verso Hölderlin, ma in qualche zona prossima, quella lirica vocativa, dove il dramma è disciolto nei giorni e nelle stagioni, con grande rimpianto. L’alta montagna è anche tempesta, maltempo, improvvisamente, per i misteriosi movimenti del cielo. Hölderlin finì nella lunga pazzia, Pozzi accolse il destino come in un Calvario consapevole (l’ultima riga della poesia intitolata emblematicamente Destino: «ora accetti / d’esser poeta»).

Il recupero odierno di Antonia Pozzi è motivato da ciò, soprattutto, dopo la sbornia delle ricerche avanguardistiche o dei cifrari ermetici. Dopo l’intellettualismo, l’anima di Antonia è semplice, ci parla e si indirizza a noi, spesso si rivolge alla natura, sempre intona un canto d’amore, sbocciato presto e quasi subito sfiorito. Tenera, amara mai, spesso sconsolata, colpisce maggiormente quando il fine è ultramondano, quando sfronda le apparenze realistiche, pur restando pienamente comprensibile.
Ci piace portare due esempi, il primo della giovinezza, il secondo della maturità: Amore di lontananza datata 24 aprile 1929 e Sfiducia scritta il 16 ottobre 1933. Leggetele!

Ma in Antonia Pozzi c'è anche una linea distinta, più sapiente, meno immediata, che segna quanto fu intraprendente anche dal punto di vista intellettuale, nell’attività di studio e riflessione del giro di giovani destinati a un grande futuro di studiosi, attorno al loro maestro di filosofia ed estetica, Antonio Banfi dell’Università Statale di Milano.
Con lei furono Remo Cantoni, Dino Formaggio, Enzo Paci, e particolarmente amico Vittorio Sereni, come dire alcuni dei cervelli febbrili del secondo Novecento italiano, fra antropologia, estetica, filosofia e poesia. Relatore ammirato Banfi, Antonia si laureò con una tesi su Gustave Flaubert e la formazione dell’autore che inaugurò la narrativa moderna. C’è un movimento identitario, oltre che una decisione letteraria, in questa scelta. È la prima tappa della carriera di una giovinetta che sta costruendo il proprio futuro, cioè lo sta componendo, incontro alla catastrofe amorosa come Bovary, ma consapevole, stoicamente laica come le sue amicizie di studentessa le hanno insegnato.
Come le esistenze sotto il Fato, la sua marcia - passeggiata fra le Grigne - a un certo punto va a ritroso, per simbolicamente chiudersi.
È l’incipit del 18 ottobre 1933, Ritorno serale:
 
«Giungere qui - tu lo vedi -
dopo un qualunque dolore
è veramente
tornare al nido...»
 
Nel quinquennio successivo Antonia Pozzi compone una lirica equilibratissima, i soggetti ricorrenti si dispongono come tessere del mosaico.
Come scrive in un saggio: «Vivere nel grande, gettarsi nelle cose», per lei ha il significato di un back-up.
Noi continuiamo ad ascoltarlo.

Roberto Agostini
Scrittore


Le immagini di questo articolo sono recuperate dal sito ufficiale http://www.antoniapozzi.it.
La foto del Monte Rosa è stata scattata dalla stessa Antonia Pozzi



 
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