Musica.Milano.Mondo: Ravi Shankar

Secondo appuntamento con "Musica.Milano.Mondo, la rubrica curata da Amerigo Sallusti, che amplia i nostri confini alle culture e alle musiche provenienti dal mondo, come dovrebbe essere doveroso per una società sempre più multiculturale. Ospite d'onore: Ravi Shankar e il sitar.  ()
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Il festival di Monterey, che si svolse dal 16 al 18 giugno 1967, fu l’apice della Summer of Love. Che proprio in California (stato in cui Monterey si trova) ebbe il massimo della partecipazione nonché produzione musicale e contro-culturale in genere.
Jimi Hendrix vi fece la prima grande apparizione. Ed insieme a lui Jefferson Airplane, Animals, Hugh Masakela, Otis Redding, Who e il “nostro“ Ravi Shankar.

Ravi stesso, che nel 1971 fece la parte del leone nel concerto per il Bangladesh che si tenne al Madison Square Garden di New York il primo di agosto. Serata organizzata dal suo grande amico George Harrison, che chiamò a quel impegno artisti del calibro di Eric Clapton e Bob Dylan, tra gli altri. Sessions che divennero anche un album triplo in cui Ravi partecipa con un brano bellissimo, Bangla Dhun, tipico di quel suono caratteristico, che ci avrebbe accompagnato per decenni.
Ma prima di queste performance dal vivo vi erano già state una serie di incisioni di notevole livello per spessore e cultura musicale.

Il 1956 aveva visto nascere, dopo anni di intenso studio delle musiche indiane, l’album Three ragas, una coerente ri-lettura della musica classica dei “suoi luoghi”. I tre brani presenti, per un totale di 55 minuti, sono propriamente un picco della produzione musicale raga. Per omogeneità di stile e fluidità nell’ascolto.
Sei anni dopo, nel 1962, abbiamo il primo album “a là John Coltrane”, con la sua modalità di modulare in maniera “marcatamente dolce” le linee armoniche. Le songs sono tutte caratterizzate da una continuità di genere tra di loro e parimenti segnate da un’onnipresente variazione sul tema, che è quello delle coordinate musicale del maestro di Ravi, Allauddin Khan. Il flautista Bud Shank produce, in ogni brano, sonorità tipicamente indiane, costantemente influenzate dagli stilemi jazz di Gary Peacock.
“Coltrane a Dehli” potrebbe essere l’accattivante titolo del disco, a descrizione del contenuto.
D’altro canto Ravi ha passato lunghi anni della sua giovinezza a studiare in maniera approfondita la musica indiana, le sue radici soprattutto. Musica che già nel terzo millennio a.C. aveva sviluppato un sistema basato su strumenti quali flauti a più fori, liuti, arpe, strumenti a percussione, già alla presenza di una scala musicale a sette note. Il tutto basato su due grandi filoni storici: il Gandharva e il Marga, considerati classici e tradizionali, meglio ancora, delle classi abbienti; poiché solo in seguito ne nascerà uno squisitamente popolare il Deshi. E proprio al Deshi si rifà prettamente Ravi.

I Raga, per l’appunto, nascono, meglio dire fioriscono, dalla commistione dei diversi “affluenti regionali” che compongono il Deshi. Sono quindi, i Raga, l’espressione maggiormente rappresentativa delle culture, delle melodie delle classi più povere dell’India, compresi gli intoccabili, i Dalit, i fuori-casta. Dal cui sentire il nostro attinge a piene mani, per poi rielaborare nelle sue composizioni.
Oggi giorno sono di fatto tre le forme musicali dell’India moderna: quella definita Drupad, la Khyal ed infine la Thumri. Quest’ultima riservata alla danza. Campo al quale si è molto dedicato Ravi. Questa è una congiunzione tra la musica classica e quella popolare. Una musica esuberante, festosa quasi barocca. Ornamenti e delicatezza le conferiscono un aspetto fragile e melanconico. A sua volta si sono costituite nel tempo tre scuole, quella di Lucknow, Benares e Panjab.
Questo “peregrinare” di Ravi tra generi, musicalità e forme espressive le più varie, è stato il suo dato personale sin dall’inizio, quando sin dalla fine degli anni ’30 si mise a studiare, tra l’altro, il Jazz, che ritroveremo frequentemente nei suoi lavori.
Questo suo estro venne riconosciuto ampiamente al punto che nel secondo dopoguerra gli venne affidata la direzione dell’Associazione teatrale indiana, per la quale compose innumerevoli partiture per balletti.
E arrivarono i Byrds, tramite George Harrison, i campioni del beach-rock, a registrare con Ravi, che contemporaneamente pubblicò “Sound of the Sitar”, disco campione di musica industana, che fece ampi proseliti tra i gruppi radical-Hippyes di San Francisco, gli Electric Flag su tutti.

Da lì a Woodstock il passo fu breve, brevissimo. Agosto 1969, la gioia in musica a rivoluzionare la musica, le musiche. Ravi si esibì di pomeriggio, lo stesso che precedette la performance, ormai memorabile, di Jimi Hendrix, che lo ascoltò attentamente. Vi fu un “uno due” quali “Raga Puriya” e “Raga Manj Khamaj” che entusiasmò letteralmente gli astanti.
Da lì in avanti cominciarono le sue collaborazioni con le istituzioni e i dipartimenti musicali statunitensi, con i suoi corsi sempre gremitissimi.

Nel 1974 è l’ora di “Shankar Family & Friends”, una miscellanea di musica indiana, jazz, pop, rock; lavoro che darà il là a Weather Report, Jazz Crusaders, Art Ensemble of Chicago…, con gli arrangiamenti di George Harrison e agli strumenti campioni della musica meltin’pot.
Seguirà l’intensa collaborazione con Zubin Mehta che sfocerà nel concerto Raga Mala del 1980, che condurrà all’album Passages del 1990 insieme a Philip Glass: minimalismo meets indian music; in sottofondo tutti i maestri: John Cage, Steve Reich, Terry Riley. Gli strumentisti poi. Tim Baker al violino, Seymour Barab al cello, Mayuki Fukuhara al secondo violino, Abhiman Kaushal alla tabla, Richard Peck al sassofon alto, per fermarsi ai più rilevanti.

Negli ultimi anni infine è arrivata la figlia Anoushka, una polistrumentista finissima, capace di passare dalle tabla al basso elettrico, tramite il violoncello. Come ha ben dimostrato nel suo “Traveller del 2011” un felicissimo sincretismo tra musica indiana e flamenco… Uno splendido passaggio di testimone.

Amerigo Sallusti 


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