Andrea Schivo


Ricordo una strana telefonata, alcuni anni fa.
Una donna, all’altro capo del filo, continuava a fare domande su un certo Andrea Schivo, omonimo di mio padre, chiedendo con insistenza se dalle memorie di famiglia risultasse qualche parente che avesse lavorato a San Vittore durante l’occupazione nazista della città.
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GiornatadellaMemoria 01
Tagliai corto, abituato alle continue telefonate di scocciatori che chiamano negli orari più inopportuni per proporre le offerte più disparate, dal vino, all’olio, al filtro depuratore da attaccare al rubinetto, ma la telefonata mi aveva lasciato alcuni dubbi: dopotutto, la donna non aveva tentato di vendermi alcunché e, se era stata in procinto di farlo, stava utilizzando una tecnica di marketing davvero inusuale.

Pochi giorni dopo, la telefonata si ripeté. Incuriosito, questa volta cercai di prestare più attenzione alle richieste della donna dall’altro capo del filo: faceva parte di una fondazione che raccoglieva materiale sugli eventi della Shoà a Milano e cercava informazioni su un tale Andrea Schivo che, da alcune testimonianze in loro possesso, era stato vittima della ferocia nazista per aver aiutato alcuni ebrei reclusi a San Vittore.

Non erano molti gli Schivo a Milano, essendo un cognome originario del Ponente ligure, quindi la fondazione stava battendo gli elenchi telefonici alla ricerca di eventuali eredi.
Venni così a conoscenza di questa piccola storia di ordinario eroismo, la storia di Andrea Schivo, secondino di San Vittore durante gli anni bui in cui il carcere ospitò, accanto ai comuni criminali, anche donne, vecchi e bambini, la cui unica colpa era quella di essere ebrei.

Tra quelle mura, in quel periodo, si perpetrarono le peggiori torture ai danni di quei poveri prigionieri, prima che venissero spediti tutti in Germania dal famigerato binario 21 della Stazione Centrale, con un biglietto di sola andata verso i forni crematori.
Andrea Schivo, sposato e padre di una bimba, era l’agente di custodia assegnato ai prigionieri ebrei. Avrebbe potuto ignorare le loro suppliche, i loro sguardi increduli, i loro disperati “perché?”, avrebbe potuto chiudere le orecchie e il cuore di fronte alle urla che riecheggiavano dalle sale degli interrogatori, fingendo che nulla fosse cambiato nel suo lavoro: in fondo quella era una prigione e loro erano dei prigionieri, non stava a lui giudicare sui motivi che li avessero condotti lì dentro.
Eppure non restò indifferente.

Consapevole dei rischi a cui andava incontro, per mesi quell’uomo fece da staffetta tra i prigionieri e le loro famiglie, recapitando di nascosto lettere, indumenti e cibo e, cosa forse più importante, una scintilla di umanità che illuminasse l’oscuro abisso in cui quei poveretti erano stati gettati dalla follia della barbarie nazista.

Fu un osso di pollo a tradirlo.
All’interno di una delle celle, i tedeschi trovarono i resti di un pasto ben più sostanzioso di quello normalmente riservato ai prigionieri, chiaro indizio che qualcuno all’interno del carcere stava facendo da staffetta con il mondo esterno.
Torturati, gli ebrei confessarono il nome di chi li aveva aiutati fino a quel momento e Andrea Schivo si ritrovò da un giorno all’altro a fissare il muro dall’altro lato delle sbarre.
La sua detenzione a San Vittore non fu di lunga durata: dopo pochi giorni fu deportato da Milano nel lager di Bolzano e da qui spostato nel campo di concentramento di Flossembürg, dove morì dopo pochi mesi, per i maltrattamenti e le percosse subite.

Non fui molto d’aiuto a quella donna, che stava cercando di ricostruire con esattezza la storia di quell’eroe borghese, a cui qualche tempo dopo il Ministro dell’Interno conferì la Medaglia d'Oro al Merito Civile alla Memoria e lo Stato d’Israele l’onorificenza di “Giusto tra le Nazioni”, il più alto riconoscimento civile che Israele riconosce ai suoi eroi.
Da allora, però, il 27 di gennaio ha un sapore particolare per me: il Giorno della Memoria mi ricorda la storia di quella guardia carceraria, con cui ho l’onore di condividere il cognome, capace di un gesto di straordinaria umanità in un luogo in cui quella parola era stata bandita da tempo.



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