Musica.Milano.Mondo: Rokia Traorè

Una nuova rubrica, a cura di Amerigo Sallusti, per allargare i nostri confini alle culture e alle musiche provenienti dal mondo, come dovrebbe essere doveroso per una società sempre più multiculturale. Il primo appuntamento è con Rokia Traorè, una straordinaria interprete della musica maliana, “musica dell’anima”.

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traore ok WEB
Nel suo bellissimo documentario sul blues il regista newyorkese Martin Scorsese parte dall’Africa, dal Mali per maggior precisione, al fine di trovare le radici musicali della musica dell’anima per eccellenza. La porzione nord-occidentale del continente, poi, che si getta nell’Oceano Atlantico è la terra d’origine dei Griots.

Il Griots è il bardo, il cantastorie, che conosce le vicende antiche, le musiche per le cerimonie importanti e sa parlare e diffondere le informazioni tramite i canti e la musica. Chiamato anche Djeli in lingua bambara (l’etnia principale del Mali) e “raggruppati” in famiglie, tramandano ai villaggi la storia degli antichi imperi e le musiche tradizionali.
I Griots cominciano da giovanissimi a suonare e parimenti apprendono anche l’arte della costruzione tradizionale degli strumenti. Sia uomini che donne possono essere dei Griots, ma l’importante è la famiglia (intesa in senso lato, decisamente allargata) d’origine. All’arrivo nei villaggi si comincia a suonare la musica, a inscenare balli talvolta del tutto improvvisati, così come “free-style” sono spesso i testi. La dizione free-style è d’altro canto la più adeguata, in quanto il parlato sincopato di lunghi tratti delle narrazioni dei Griots sono propriamente delle “spoken-word”, che come il free-style è la tipologia d’espressione vocale più classica per i gruppi rap più vicini “al ritorno all’Africa” come, ad esempio, gli immaginifici newyorkesi Arrested Development e il compianto Gil Scott Heron. Le radici…

Ma torniamo alla nostra. Alla sua ultima produzione. A cominciare dalla copertina. Rokia in un angolo, seduta con al fianco la sua chitarra. E che chitarra, la stessa di Bo Diddley e Muddy Waters. Tanto per dichiarare gli intenti, per esplicitare i riferimenti. Album che Rokia ha composto a seguito di lunghi anni di lavoro (il precedente Tchamanchè è di cinque ani fa) e ricerca culturale, antropologica e musicale sulla sua terra, sulle misture, sugli incroci sonori che la caratterizzano. La produzione musicale è di John Paris, che ha lavorato tra gli altri con P.J. Harvey,che l’ha caratterizzata con toni elettrici e spigolosità, ben amalgamandoli con le rotondità e le trame purpuree tipiche delle musiche ancestrali africane.

Il brano che dà il titolo all’album è un funky bianco: nervoso ed elettrico. Fiammeggiante nell’andamento. Con i testi esplicitamente a denunciare la drammaticissima situazione del suo paese (la guerra civile che oramai impazza da un anno) in particolare la condizione delle donne costrette a subire violenze e “stupri etnici”. Il cantato in francese è poi azzeccatissimo, con una cadenza dura e rabbiosa sostenuta da chitarre distorte. Più che villaggi del Mali, sembrano banlieues dei suburbi parigini.
L’apertura è invece caratterizzata da toni intimisti con tessiture armoniche compatte; il pezzo Lalla è davvero pregevole, con la voce della nostra che guizza mostrando delle capacità vocali enormi. In Kouma si sente tutta la libertà delle donne maliane, della loro preponderanza nel campo musicale, di questa espressione culturale utilizzata dai Griots, sempre più donne.
Rokia ne riassume la forza interiore in questo brano, accompagnata da un blues struggente. Come diceva del resto Ali Farka Tourè: “Noi il blues lo abbiamo sempre fatto, da noi ha un altro nome, si chiama sonhai”, a riassumere l’attitudine musicale di un popolo. Cosa altro non ha suggellato Talkin’ Timbuktu, d’altro canto, se non che la “musica del diavolo” è nata prima sul Niger, per poi spostarsi sul Mississipi?

A seguire Sikey e Melanconie, suadenti e particolarissime per l’accoppiata chitarra e n’goni. Strumento tradizionale maliano, a corde, spesso utilizzato da Rokia durante le esibizioni dal vivo. Così come, sempre durante i concerti, privilegia utilizzare la kora, antico strumento melodico a 21 corde che pare essere il progenitore della strumentazione a corde del blues e il balafon, xilofono con in genere 21 lamelle.
Ci si imbatte quindi in Ka Moun Kà, una ballata dolente, di quelle che solo il più ispirato Lou Reed è riuscito a comporre in musica. La chiusura è affidata a Sarama, “una Tracy Chapman in terra d’Africa”. Un canto alle donne africane. Di una bellezza e un senso materno sconcertanti, ma travolte da guerre e carestie; violenze e restrizioni di ogni genere. Rokia non ci sta. E lo canta apertamente. Lo dichiara. Lo stesso fervore che la trasporta nella difesa dell’ambiente, anch’esso sottoposto a ogni genere di brutalità. Come cantò nel 1996 in ricordo dell’attivista nigeriano Ken Saro Wiwa, poco dopo che venne impiccato a causa del suo costante impegno per la natura della madre africa. La stessa di Rokia e di noi tutti.

Rokia Traorè
Beautiful Africa 2013
Nonesuch Records


Amerigo Sallusti


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