Sia lode ora a uomini di fama: Gino Di Maggio

Nella nostra zona ci sono e ci sono state persone importanti che contribuiscono e hanno contribuito al progresso sociale, civile e culturale della nostra città e del nostro Paese. L’occasione di conoscerle è un modo per stare nella storia e nelle stagioni

()
gino di maggio web
Siciliano di Milano dal 1950, Gino Di Maggio si occupa di arte e cultura dalla fine degli anni ’60.
Prima di fondare Mudima, ha gestito gallerie d’arte occupandosi anche di musica sperimentale e letteratura. Ha conosciuto da vicino tutti gli artisti milanesi (ma non solo) che hanno animato gli ultimi cinquant’anni di cultura a Milano. Era ed è ancora un riferimento per capire il passato, il presente e il futuro della nostra città.

Ci può presentare la Fondazione Mudima?
La Fondazione Mudima è nata nel 1989 contemporaneamente alla Fondazione Mazzotta. Sono state riconosciute dalla Regione Lombardia nello stesso mese, anche se il nostro lavoro era iniziato molto prima.
Mentre la Fondazione Mazzotta si è dedicata all’arte moderna, Mudima si è orientata verso l’arte contemporanea e la ricerca musicale.
Negli ultimi cinquant’anni, l’arte ha conosciuto un’evoluzione molto evidente. Negli anni ’50 e ’60 il mercato era praticamente inesistente. Esistevano grandi gallerie che producevano soprattutto informazione e cultura. La galleria di Arturo Schwarz, la galleria Apollinaire di Guido Le Noci erano realtà che informavano la città su eventi e avvenimenti del tutto sconosciuti nel campo della ricerca nel mondo dell’arte. Negli anni ’70 invece si è verificata la partenza del mercato che è diventato da subito molto invasivo: aveva coinvolto gli artisti più di quanto gli artisti stessi avrebbero dovuto essere coinvolti.
Il mercato, intendiamoci, è essenziale, garantisce la sopravvivenza della ricerca artistica e permette di fare iniziative. Come è noto, per fare una mostra ci vogliono i mezzi economici.
Mercato e denaro sono essenziali. Ma il mercato in qualche modo ha offuscato quella funzione di sacralità e purezza che tutti noi affidiamo al concetto di “arte”. Un concetto non facilmente definibile e declinabile.
La mia idea fu quella di creare un luogo neutro rispetto al mercato dove l’artista potesse ritrovare per un momento, una volta ogni tanto, il tempo e la voglia di esercitare la sua ricerca, prescindendo dal rapporto con il denaro.
Questo spazio di via Tadino non era un luogo destinato all’arte, era una palazzina con piccoli appartamenti che era casualmente rimasta sfitta, precedentemente era una cantina che vendeva vino all’ingrosso. C’è stata una trasformazione d’uso non facilmente accettata. I sindaci di allora Tognoli e Pillitteri erano favorevoli all’idea che ci fosse un luogo per l’arte e anche gli abitanti del quartiere erano favorevoli. Mentre gli Uffici tecnici comunali hanno creato una miriade di problemi che hanno fatto sì che questa Fondazione nascesse con otto o nove anni di ritardo. Fortunatamente non ci siamo stancati e abbiamo proseguito in questa avventura.
Abbiamo proposto ai milanesi una serie di artisti che poi si sono rivelati nel tempo assolutamente importanti. Artisti che faceva riferimento al movimento Fluxus e al Nouveau Réalisme.
Oggi tutto ciò fa parte della storia dell’arte, ma allora non è stato facile. Abbiamo inaugurato questo luogo con un concerto di musica contemporanea che si intitolava “From Dinner to Breakfast” che durò dalle otto di sera alle otto del mattino. Alle tre di notte si esibì un ragazzo di NewYork che suonava la tromba in modo meraviglioso: nessuno protestò, ci fu da subito una grande attenzione da parte del quartiere. Dopo quasi 25 anni di attività abbiamo svolto un ruolo di aggregazione molto importante. Quando riusciamo a trovare qualche sponsor, non essendo sostenuti né dalla Regione, né dal Comune o dalla Provincia, realizziamo anche dei volumi.
Abbiamo una collana dedicata agli artisti e alle mostre e un’altra intitolata “Fluid” che è dedicata invece alle personalità straordinarie della cultura del 20° secolo come Marinetti, John Cage, Russolo, artisti che hanno segnato la storia del loro tempo come Sergio Dangelo con il suo Movimento nucleare…
Queste pubblicazioni ci consentono di lasciare una traccia tangibile e una testimonianza del nostro operato.

Quali sono gli artisti che rappresentano meglio la sensibilità culturale di Mudima?
Sicuramente gli artisti che fanno capo a Fluxus e al Nouveau Réalisme, a volte ci occupiamo di giovani e, a volte, rendiamo omaggio ad artisti come Rodolfo Aricò che ha operato a Milano dalla fine degli anni ’50 sino alla fine degli anni ’90. Personalità del mondo dell’arte che dato un contributo che forse non è ancora del tutto riconosciuto. Il mercato si occupa poco di questi artisti.
O come Aldo Mondino, figura di artista poliedrico, pittore, scenografo, scultore, inventore, di cui il mercato non vuole occuparsi. È impossibile indicare un solo artista, ho conosciuto moltissimi artisti e tutti mi hanno dato qualcosa. Più erano importanti e più erano disponibili al confronto.
All’estero abbiamo organizzato anche mostre importanti. In Giappone abbiamo realizzato una mostra dedicata all’arte povera e alla transavanguardia ma anche una straordinaria mostra su Alberto Burri.

Qual è il vostro rapporto con il quartiere e con le Istituzioni?
Mi piacerebbe ci fossero più rapporti con il quartiere, più scambio, più partecipazione. Negli anni ’90 abbiamo lavorato proficuamente con il Comune di Milano quando era assessore alla cultura Philippe Daverio, abbiamo organizzato una grande mostra a Palazzo Reale. A parte ciò, nessun rapporto con le istituzioni.

E con la città di Milano?
Io amo Milano. Sono un milanese d’importazione, sono arrivato qui dalla Sicilia all’età di dieci anni e sono cresciuto in questa città. Non ho mai rinnegato le mie origini, ma questa è la mia città.
Mi piace passeggiare per Milano. Penso sia una città molto civile che ci ha accolto con benevolenza e con grande disponibilità. Io che sono di sinistra, ho scoperto che a Bologna non facevano scendere i meridionali dal treno, li invitavano a continuare il viaggio sino a Milano. La cosa non mi è mai parsa esattamente gentile. A Milano noi meridionali siamo stati invece bene accolti. È una delle città più civili d’Europa.

Ci racconta l’avventura di Alfabeta?
Uno strano giornale nato nell’Italia degli anni ’70, in un periodo di grande confusione. C’era in atto una evidente involuzione dei movimenti e le discussioni prendevano spesso percorsi non prevedibili. In questo clima è nato Alfabeta. E’ nato nel corso di una lunghissima discussione, durata tutta una notte, con un artista americano che si chiama George Brecht. Con lui abbiamo deciso di fondare un giornale e il nome deriva dal fatto che Brecht aveva sottomano un pacchetto di sigarette Alfa a cui abbiamo aggiunto “beta”, un po’ come l’inizio di tutte le cose…
Il giornale ha avuto poi diverse evoluzioni, prima aveva un formato piccolo, simile all’Espresso di oggi, poi con Nanni Balestrini è diventato un’altra cosa e sono arrivati Eco, Spinella, Maria Corti, Rovatti, Porta…
Questa serie di Alfabeta è durata sino al 1988. Era un giornale di successo perché proponeva una vera discussione culturale, una zattera per traghettare quel mondo della cultura, che aveva preso delle sbandate non sempre condivisibili, dal disastro ad una situazione di normalità.
L’impresa ha avuto successo, ha avuto dieci anni di vita ed aveva, caso unico, dieci direttori che convivevano tra di loro e sono riusciti a lavorare insieme finché il tutto non si è naturalmente esaurito. Dopo la chiusura dell’esperienza, c’è stata una lunga pausa e 15/20 anni di berlusconismo… Noi sopravvissuti ci siamo detti che forse era il caso di fare qualcosa, di mettere in mare ancora una volta una zattera e così è nato Alfabeta2, un modo per essere presenti, intervenire e resistere, proponendo… Ancora una volta però stiamo facendo una rivista senza soldi, che arriva in edicola a prezzo di grandi sacrifici, ci inventiamo in modo rocambolesco sponsorizzazioni varie che ci hanno consentito di arrivare al numero 30 e tutto questo nasce in via Tadino.

Progetti per il futuro?
In questi tempi così precari, non so se la Fondazione avrà un futuro. Certo mi piacerebbe poter continuare anche se è difficile passare il testimone. Le nuove generazioni chiedono troppo certezze e mancano di spirito d’iniziativa. Non sempre tutto è programmabile. A Milano ho imparato che ci vuole “l’olio di gomito” e investire in se stessi. Ci vuole passione per fare le cose.
I giovani, se hanno delle idee, devono giocarsele, anche se il risultato non è scontato.

a cura di Massimo Cecconi

In apertura: Gino di Maggio fotografato da Fabio Mantegna

Commenta

 
 Rispondi a questo messaggio
 Nome:
 Indirizzo email:
 Titolo:
Prevenzione Spam:
Per favore, reinserire il codice riportato nell'immagine.
Questo codice serve a bloccare i tentativi di inserimento automatici.
CAPTCHA - click right for audio Play Captcha