Sia lode ora a uomini di fama: Umberto Fiori

Nella nostra zona ci sono e ci sono state persone importanti che contribuiscono e hanno contribuito al progresso sociale, civile e culturale della nostra città e del nostro Paese. L’occasione di conoscerle è un modo per stare nella storia e nelle stagioni. ()
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Umberto Fiori ha un curriculum di tutto rispetto. Di quelli che devi togliere anziché aggiungere perché rischia di essere lungo anzi lunghissimo. Insegnante, scrittore, operatore culturale a tutto tondo, musicista e poeta. Numerose le sue raccolte, le sue performances, il suo lavoro incessante tra parola, musica e pensiero. Ci piace poter dire, con un pizzico di sciovinismo civico, che è facile incontrarlo per le strade che si raccolgono attorno a piazzale Lavater. Quindi con pieno merito cittadino, oltre che del mondo, della nostra zona.

Come nasce il tuo interesse per la poesia?
Nasce, credo, da una fortissima, quasi morbosa attrazione che hanno esercitato su di me fin da piccolo le parole, scritte e parlate. Ci sentivo qualcosa di misterioso, di magico. Mi sembravano cose vive. Molto presto, da ragazzino, ho cominciato a leggere poesie - anche e anzi soprattutto al di fuori della scuola - e poi a scriverne; prima che mi decidessi a pubblicare qualcosa, però, sono dovuti passare trent’anni: quello che avevo scritto non mi convinceva mai abbastanza.

Cosa deve comunicare per te la poesia?
Formulata in questi termini, la domanda avrebbe irritato i grandi poeti del Novecento, e probabilmente irriterebbe anche certi poeti contemporanei. La poesia moderna non ha mai accettato di essere ridotta a “comunicazione”, a trasmissione di “messaggi” in versi. La mia esperienza mi ha portato per altre vie. Rispetto ai “contenuti” sono meno schizzinoso. Per me non si tratta tanto di “comunicare” questo o quello, ma di trovare, nella lingua, ciò che mi mette in comune con gli altri, con una comunità che è sempre qui ed è sempre a venire. Io la chiamo la mia “frase normale”. E poi ci sono le immagini, attorno alle quali spesso nasce il testo: le case, i cani, gli alberi, la strada, lo scavo, la discussione… lì sento venir fuori il mio essere insieme. La poesia - anche la più oscura e solipsistica, credo - “comunica” che in gioco c’è qualcosa, e quel qualcosa ci riguarda tutti.

Quali sono, se ci sono, i tuoi riferimenti poetici? Esistono maestri in poesia?
Esistono, eccome. Ci mancherebbe. Solo un presuntuoso dilettante può vantarsi di non averne. Dante Petrarca Leopardi -c’è bisogno di nominarli? Il primo contemporaneo da cui ho cercato di imparare, fin da ragazzino, è Eugenio Montale (soprattutto gli Ossi di seppia). Tra i nostri poeti del Novecento, oltre a Montale direi Sbarbaro, Saba, Jahier, Penna, Caproni, Sereni (che ho anche avuto la fortuna di frequentare). E infine Zanzotto, dal quale mi sono dovuto in un certo senso “liberare”. Tra i classici moderni il mio faro è Baudelaire. Mallarmé è stato importantissimo nella mia riflessione sulla poesia. Come dimenticare poi Goethe, Hölderlin, Rilke, T.S.Eliot, Gottfried Benn? Ma non ci sono solo i poeti. Scrittori come Kafka (un altro faro, insieme a Baudelaire), C.E.Gadda, Robert Walser, sono stati (e sono) punti di riferimento importantissimi, insieme a pittori come Sironi, e a filosofi come Kierkegaard, come Wittgenstein. Non parliamo dei musicisti…

Ci parli della tua esperienza musicale con gli Stormy Six?
È durata poco più di dieci anni, ma mi ha segnato la vita. L’inizio è stato nei primi anni Settanta. Avevo vent’anni, suonavo in piccoli gruppi folk: il repertorio andava da Bob Dylan e Woody Guthrie al canto popolare italiano. Franco Fabbri, che stava cercando di imprimere una svolta “impegnata” agli Stormy Six (nati nel 1965 come beat band), ha tirato dentro me, Tommaso Leddi e Carlo De Martini (allora giovanissimi). Lì sono nate “Stalingrado”, “Dante Di Nanni” e le altre canzoni pubblicate poi in “Un biglietto del tram” (1975). Fare il musicista a tempo pieno è stata per me anche l’occasione per conoscere da vicino un bel pezzo di mondo: abbiamo suonato in tutta Italia, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, e poi in Germania (moltissimo), Austria, Svizzera, Francia, Spagna, Inghilterra, Svezia … Centinaia e centinaia di concerti, lunghi viaggi, letture, ascolti collettivi, discussioni… Allora la musica - anche quella popolare - era sentita come una cosa molto seria… Ridevamo delle cose più stupide, e subito dopo partiva il dibattito sull’estetica… Anche quando abbiamo chiuso la baracca (primi anni ’80) siamo sempre rimasti in contatto. Amici, direi quasi parenti: una famiglia, con tutti i pregi e i difetti delle famiglie. A partire dagli anni ’90 –cedendo alle insistenze dei nostri sostenitori- abbiamo ricominciato a fare qualche concerto col vecchio repertorio. Ultimamente, su invito di Moni Ovadia (anche lui parte della “famiglia”), abbiamo messo in piedi una nuova serie di canzoni e uno spettacolo, “Benvenuti nel ghetto”, dedicato alla rivolta di Varsavia del 1943.

Progetti per il futuro?
Sto lavorando a un lungo racconto in versi, “Il Conoscente”. Una cosa molto diversa da quelle che ho scritto fin qui: in parte autobiografica, in parte (in massima parte) inventata. Il protagonista è un personaggio odioso, una specie di poliziotto-psicologo che mi lusinga e mi provoca… I primi capitoletti si potranno leggere nell’Oscar Mondadori dedicato al mio lavoro 1986-2013, che uscirà alla fine di quest’anno.

Qual è il tuo rapporto con Milano e con il quartiere in cui abiti?
A Milano sono arrivato nel 1954. Avevo cinque anni, ed ero cresciuto al mare, in Liguria. L’impatto è stato tremendo: Milano allora era una città grigia, cupa, nebbiosa, ancora più inquinata di oggi. A poco a poco mi sono ambientato, fino a sentirmi integralmente milanese. Il mio quartiere “d’origine” è quello tra Porta Vittoria e Porta Romana, ma da molti anni mi sono trasferito in zona 3 (Piazzale Lavater). Il quartiere mi piace, è ancora di quelli in cui puoi muoverti come in un paese: tutti si conoscono, si salutano, tutti sono gentili, dall’edicolante al panettiere. Di tre cose farei volentieri a meno: la sosta selvaggia, la “movida” con schiamazzi e musica a manetta fino alle ore piccole, e il sottofondo ininterrotto di cani che abbaiano.  

A cura di Massimo Cecconi


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