Incontro con Marco Petrus

Marco Petrus è nato a Rimini nel 1960 ma lavora e vive a Milano da sempre. La sua è una pittura di ricerca che analizza con puntigliosa descrizione ambienti urbani apparentemente  ben riconoscibili, salvo un continuo rimescolamento delle immagini che affiorano a diversissimi livelli di lettura. Lo abbiamo incontrato nel suo ordinatissimo studio all’Isola dove sta preparando le opere per la sua prossima mostra negli Stati Uniti. La sua è una pittura totalizzante, ossessiva e rigorosa. Milano gli deve una mostra. ()
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Come descriveresti il tuo lavoro ?
Il mio lavoro si basa su un paradosso. È innegabile che nei miei quadri ci siano riferimenti alla città, però  ho sempre dichiarato, e confermo, che dipingere la città per me è un pretesto per fare pittura, nel senso che  ho sempre cercato nella città degli spunti compositivi. Ho sempre guardato gli edifici come a modelli classici. Come se la città fosse una grande aula d’Accademia e i gessi i modelli a cui ispirarsi.
Ho sempre guardato la città da questo punto di vista. Nelle architetture ricerco la composizione di pieni e di vuoti, di rapporti volumetrici e cromatici. È paradossale, perché non intendo rappresentare la città. La città mi dà senz’altro stimoli, mi interessa però da un punto di vista molto astratto, non dal punto di vista della città vissuta in quanto tale.
Il discorso è sicuramente da approfondire, al di là del paradosso.

Qual è stato il tuo percorso artistico?
Mi sono diplomato al Liceo Artistico ma il mio vero  interesse per l’arte è nato quando, iscritto a Architettura - che ho frequentato un paio d’anni -, con alcuni amici mi divertivo a girare per Milano con la macchina fotografica per documentare le nostre passeggiate, per fermare con le foto edifici che ci sembravano interessanti. Eravamo negli anni ’80, quando le fabbriche cominciavano a chiudere e si discuteva della questione dei vuoti industriali. Noi giovani eravamo attenti a queste tematiche ed eravamo incuriositi dalle trasformazioni in atto. Ricordo giri in bicicletta alla Bovisa e all’Isola per andare a fotografare vecchie fabbriche e capannoni ormai in disuso.  Su questi temi Gabriele Basilico è stato tra i primi  a lavorarci e maestro per molti di noi.
Sono figlio d’arte, ma purtroppo mio padre Vitale, che è morto ancora giovane nel 1984, non ha mai visto un mio quadro. La mia prima mostra risale al 1989. Dopo la morte di mio padre,  ho aperto un laboratorio di stampe d’arte aiutato dai suoi amici artisti. Questa esperienza mi è servita molto perché, avendo le attrezzature adeguate, ho iniziato a disegnare e incidere le mie prime cose.
In questo modo è cresciuta la consapevolezza e la voglia di fare il mestiere di pittore. Ci sono voluti un po’ di anni però, ho avuto una formazione artistica sul campo, da autodidatta, non ho frequentato l’Accademia, non ho avuto maestri, anche se, per le tematiche da me affrontate, sono spesso stati citati, dai critici, grandi artisti quali Sironi, De Chirico, Hopper. Ci possono stare tutti, ma io ho cercato e penso di avere trovato una mia strada personale. Il contesto influenza, con il senno di poi  posso dire che ho guardato più agli americani che non agli italiani. Certo, nei miei primi lavori la tavolozza può ricordare Sironi  e le atmosfere metafisiche, De Chirico; non penso però di aver mai avuto la drammaticità del primo e il mistero del secondo. Piuttosto, la propensione alla stilizzazione e la continua sottrazione degli elementi realistici, l’atmosfera di sospensione e  di fissità, spesso mi hanno fatto pensare a Sheeler e Hopper.

Qual è il tuo rapporto con Milano?
Ho costruito inizialmente un rapporto molto forte con Milano, città dove sono cresciuto e vivo tuttora, perché il materiale era a portata di mano, lo trovavo nella mia città. Più tardi però si è sviluppato l’interesse per altri luoghi grazie ai viaggi che ho fatto. Non ho mai dipinto soltanto Milano. Io non trasmetto mai l’identità di una città. Dipingo Milano come se dipingessi Mosca o Budapest. Lavoro soprattutto sulla ricerca di un’identità artistica più che sull’identità di una città. La mia è una ricerca di una poetica personale che riesco a costruire attraverso la ricerca di elementi che, ho deciso, per passione e per interesse, di ritrovare nell’architettura in senso lato e non in un’architettura specifica.
 Ci sono però  alcuni stili architettonici che mi hanno sempre interessato di più, che ho ritrovato in un certo periodo storico che va, soprattutto, dagli anni ‘20 agli anni ’40 del Novecento.
Questo non certo per questioni storiche, Il mio interesse è indirizzato a architetture che sono consone al tipo di pittura che sento. Per me, l’edificio deve essere molto marcato. Deve tendere al monumentale. Deve avere rapporti forti e forti contrasti. Mi interessa meno il dettaglio costruttivo e  il particolare decorativo.

Da cosa deriva il tuo interesse per i contesti urbani e quali sono i luoghi di Milano che ami di più?
Da giovane facevo passeggiate metropolitane anche attraverso percorsi quotidiani casa/scuola, casa/studio. All’inizio, guardavo gli edifici senza interessarmi degli architetti che li avevano progettati. Poi ho iniziato a documentarmi e ho costruito una sorta di toponomastica milanese dei  miei luoghi che, anni dopo, è diventata un volume in cui ho segnalato questi edifici. Da lì ho sviluppato un mio discorso pittorico e mi è venuta l’idea di concentrarmi su un unico edificio per poterlo rappresentare in varie sfaccettature. Per fare questa operazione, ho pensato di avere bisogno di un edificio molto simbolico, riconoscibile e ho scelto  la Torre Velasca. Ne è scaturito un rilevante ciclo pittorico, che è diventato il mio stilema. Prima l’itinerario, poi l’edificio unico e i suoi vari dettagli, poi ho sovrapposto a testa in giù un palazzo sull’altro dando inizio alla serie degli “Upside down”, seguono i “details” elementi ingranditi e decontestualizzati e ora sto dipingendo delle grandi composizioni: case, palazzi, architetture accastellate e rimescolate tra loro, una sorta di inventario di 25 anni di ricerca e di lavoro.
La Torre Velasca è un edificio un po’ duro, il Grattacielo Pirelli è molto più elegante. Ci sono moltissimi edifici a cui sono affezionato: la Ca’ Brutta e il Palazzo della Triennale di Muzio, il Garage Traversi di via Bagutta, la Torre Ponti Lancia a Porta Venezia.
Milano ti sorprende, perché puoi scoprire la casa di via Carducci angolo corso Magenta che ha un baldacchino stranissimo e la Casa della Fontana di viale Vittorio Veneto, entrambe dell’architetto Rino Ferrini, poco noto e che meriterebbe uno studio approfondito, il Palazzo Vittoria di Elio Frisia in piazza Cinque Giornate che sembra una nave e, in Corso Italia, l’avveniristico, per l’epoca, edificio di Luigi Moretti del 1951.
In zona 3 c’è, in piazza Ascoli, l’Istituto Virgilio di Renzo Gerla (1934) che ho rappresentato più volte e la Casa Marmont di Gio Ponti in Via Gustavo Modena.

A cura di Massimo Cecconi


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