A teatro a teatro: Incontro con Giovanna Marini, la signora della musica italiana

Un incontro con una donna straordinaria che ha vissuto in prima persona tutte le stagioni culturali della seconda metà del Novecento. Un raro esempio di coerenza e di intelligenza intellettuale. Sempre schierata con tenace passione dalla parte degli ultimi. Grazie.

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Giovanna Marini

Abbiamo incontrato Giovanna Marini in occasione del suo concerto “Dal punto di vista dei serpenti” presso Spazio Teatro No’hma a cui va il grandissimo merito di averla invitata a Milano per la seconda volta in pochi mesi. Sul palco di No’hma, Giovanna Marini si esibisce con il suo Quartetto vocale (ridotto a tre voci per via di una influenza di stagione) e incanta il pubblico, come sempre le accade, con le sue storie, le sue ballate, la sua splendida ironia. Alla fine di un concerto durato quasi due ore, gli applausi sono insistenti, convinti, persino commossi. Tra il pubblico Arnaldo Pomodoro, Luigi Pestalozza, Franco Fabbri, Antonio Calbi e Livia Pomodoro, naturalmente.

Giovanna Marini è una signora elegante, colta, con doti di grande affabulatrice. Lei che possiede una solida preparazione musicale con diploma in chitarra classica al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, ha dedicato tutta la sua vita a raccogliere testimonianze della nostra tradizione orale popolare, a comporre ballate politiche che hanno raccontato oltre cinquant’anni della nostra storia, a scrivere musica colta contemporanea e a formare migliaia di giovani studenti che grazie a lei hanno imparato ad amare le tradizioni popolari e a capire il senso della storia. Gentile e affabile, ma estremamente determinata, verrebbe da dire che se non esistesse andrebbe inventata. Diceva qualcuno autorevole alla fine dello spettacolo che Giovanna Marini meriterebbe una esibizione alla Scala. Parole sacrosante.

C’è ancora interesse nel nostro Paese per la musica e le tradizioni popolari?
C’è molto interesse tra gli studenti e i giovani. Ci sono poi anche alcuni “nostalgici”, che sono i famosi sessantottini, che sono legati più all’immagine che noi abbiamo dato loro del folclore che non al folclore stesso. Ci sono molti giovani che, grazie all’insegnamento dell’etnomusicologia all’Università, stanno diventando veri esperti della materia. A loro manca la pratica, manca di andare in giro a vedere quello che succede realmente per capire cosa sono i canti popolari, chi li canta, perché li canta. Devo dire però che l’interesse è tanto. Quando nel periodo pasquale vado a registrare le testimonianze, vengono con me molti giovani, italiani e francesi. Ora i francesi ci vanno per conto loro perché io non vado più a insegnare a Parigi. I giovani, che non sanno nulla di quello che accadeva prima, sono molto interessati ad ascoltare i canti popolari. Prima c’era soprattutto interesse per l’elemento sociale, ora anche per gli aspetti musicali.

Oggi esiste ancora la così detta canzone politica e chi ne sono gli interpreti?
Certo, esiste ancora. Ad esempio, esiste un gruppo di bambini rom che fanno il rap. È molto interessante. Bambini che cantano nella loro lingua canti di protesta: “vogliamo vivere anche noi nelle case, vogliamo anche noi i letti, abbandonare le baracche che prendono fuoco. Vogliamo vivere e fare cose interessanti”. Interessante e moderno, questo canto senza armonia è però molto ritmico. Per me, questo è un canto politico. Ci sono ancora molti canti politici al sud, ci sono ancora molti cantastorie con i loro stornelli. La canzone politica conclamata con i festival del canto politico non esiste più. C’è però una spontanea inclinazione a raccontare le proprie cose anche politicamente. Si è visto anche a San Remo dove è ormai contemplato anche il settore del canto sociale. C’è la canzone politica e c’è il grande ritorno delle tradizioni popolari.
Negli anni ’60, si stavano perdendo tutte le tradizioni perché c’era la nuova Italia, quella impegnata nella ricostruzione dopo la guerra, quella del boom economico. La gente allora non pensava più ai canti della tradizione orale, ai canti dei santi patroni. Tutti volevano guadagnare soldi, vivere meglio e dimenticare la miseria in cui avevano vissuto. Ad esempio, erano rimasti pochissimi “battenti” nelle cerimonie legate alla settimana santa. Ora nei paesini della Lucania i “battenti” sono tornati. Sembra che l’Italia sia tornata alla miseria. L’Italia fa ancora appello ai santi perché ci si aspetta non più giustizia ma solo miracoli. Come accade con Berlusconi che promette di togliere le tasse, promette anche quello che è impossibile promettere.
C’è un grande ritorno alla religione superstiziosa.

Qual è il significato dello spettacolo “Dal punto di vista dei serpenti”?
È uno spettacolo sulla vita religiosa popolare. L’Italia è un paese politeista e assolutamente non religioso, è un paese ateo. Ognuno crede nei suoi santi. Dio è troppo lontano, la chiesa cattolica ha allontanato Dio, ha creato un miscuglio di materialismo non credente, legato solamente a fenomeni esteriori. La gente non crede. Prima credeva male, ora si è stancata, dimostra di non avere un rapporto con il trascendente. È il crollo della chiesa. Nello spettacolo si richiama la chiesa di Aquileia e tutte le sue eresie. Questa chiesa è animata da una fede marciana, addirittura filoebraica, lontana dalla chiesa di San Paolo. Si richiama la disputa di Antiochia quanto San Paolo voleva imporre il suo antiebraismo alla chiesa contro San Pietro. La chiesa friulana è chiesa d’oriente, in contrasto con la chiesa d’occidente.

Qual è la sua composizione a cui lei si sente più legata e che la rappresenta meglio?
Mi rappresentano di più i Requiemche ho scritto e che vengono raramente eseguiti. Ma anche il Concerto per Leopardi, o Spesso il male di vivere ho incontrato (da un testo di Montale), Le ceneridi Gramsci tratte da Pasolini, il Lamento per la morte di Pasolini, La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde che ho portato in teatro con Umberto Orsini. Questo sono le opere che mi rappresentano meglio. La canzone politica, che amo comunque molto, è un piccolo sfizio della mia vita, la parte più politicamente impegnata, più militante. Quando scrivo, amo di più le cose colte, quelle più conosciute in Francia, quelle più sperimentali.

Quali sono i suoi progetti per il futuro?
Punto molto sui giovani che in Italia hanno poche possibilità. Lavoro con loro. All’estero va un po’ meglio. Il progetto su Montale è stato realizzato con Xavier Rebut, un bravissimo musicista che, non a caso, lavora più in Francia o in Svizzera. Con un gruppo di studenti della Sapienza abbiamo lavorato su la Vita Nova di Dante Alighieri e l’abbiamo eseguita a Frascati. A me piace scrivere la musica. Se voglio far sentire la mia musica in Italia devo pagare io, mentre se vado all’estero pagano loro. In Italia sono sempre accolta con tanto affetto e senza soldi, mentre all’estero c’è un piccolo riconoscimento economico, come avviene per la musica contemporanea.

Qual è il suo legame con Milano?
Il legame con Milano è molto forte. Mi dispiace molto di non venire a Milano più spesso. È stato il mio punto di partenza. Nel 1963 cantai alla Casa della cultura e qui partecipai al progetto di Bellaciao. Qui ho lavorato con l’Istituto Ernesto De Martino, prima che si trasferisse a Sesto Fiorentino, con Franco Coggiola che ci ha anche perso la vita. Ho lavorato molto con Elio De Capitani con cui abbiamo un progetto su Agamennone.
Il Comune di Milano mi ha chiamato la scorsa estate per un concerto e spero che mi richiami .
Lo Spazio Teatro No’hma mi ha chiamato per la seconda volta. Certo ho 76 anni, non so sino a quanto potrò continuare. Per ora l’età con conta…

( a cura di Massimo Cecconi)



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