Consultori pubblici, privati o CAV?

Quale il loro ruolo, quante e a chi le risorse disponibili.
E soprattutto quale futuro per i consultori pubblici?
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donne
È un dato di fatto; dei consultori familiari pubblici, del loro ruolo, della loro sopravvivenza si sa ben poco. Arduo è ricavare un quadro approfondito a livello nazionale, nebuloso a dire poco per la Regione Lombardia. Dati frammentari, parzialmente aggiornati spesso privi di informazioni sugli aspetti strutturali e organizzativi rendono impossibile qualsiasi valutazione e una risposta concreta al fabbisogno del territorio.
Ma una cosa è certa: stiamo assistendo a un lento smantellamento dei consultori pubblici a favore di quelli privati accreditati con matrice cattolica. Un tentativo di snaturare il loro ruolo originale, previsto dalla Legge 405/75, fondato sui concetti di salute e autodeterminazione della donna e benessere della famiglia, per perseguire un altro obiettivo: quello della salvaguardia della famiglia tradizionale.

Un dato per tutti: in Lombardia 152 sono i consultori pubblici, 85 i privati e i CAV (Centri Aiuto alla Vita) 36. Se consideriamo solo la città di Milano, abbiamo 18 consultori pubblici e 15 accreditati, di cui ben 13 obiettori di coscienza.
I consultori privati accreditati sono per la maggior parte di matrice cattolica e possono presentate obiezione di coscienza di struttura (ovvero non praticare interruzioni di gravidanza o prestazioni legate alla contraccezione) Questo significa sostanzialmente escludere le prestazioni e il personale che rendono attuabile la legge 194. In altri termini: non ci sono medici non obiettori, non viene inserita la spirale intrauterina, non è prescrivibile la contraccezione post coitale, non si nomina  la possibilità di utilizzare l'aborto chimico e così via.

Sostanzialmente l’offerta pubblica e quella privata si differenziano in termini di utenza rispetto alla domanda di contraccezione e malattie sessualmente trasmissibili; prevalente e in aumento nel servizio pubblico, mentre il sostegno alla coppia è predominante in quello privato. Ma questo, per il privato, comporta anche un innegabile vantaggio economico: le prestazioni mediche, per semplificare, di primo livello, vengono riversate ed erogate per il 70% dalle strutture pubbliche, mentre le prestazioni socio-sanitarie ad elevata integrazione, le più remunerate dalla regione, sono erogate per il 53% dalle strutture private.

Ma non solo.
Il più recente cambiamento di ottica della regione Lombardia è stato il "Progetto Nasko" con la delibera della regolamentazione dei CAV (centri aiuto alla vita).
Nel settembre 2010 è stata pubblicata una delibera regionale per “prevenire” l’interruzione della gravidanza, anche mediante l’attivazione di legami di solidarietà tra famiglie e gruppi sociali e con azioni di sostegno economico. La delibera stabilisce che il personale del consultorio debba informare la donna della possibilità di non abortire in cambio di un aiuto economico: la somma di € 4.500 è erogata attraverso un sostegno mensile di € 250, per un massimo di 18 mesi e suddivisa tra il periodo precedente il parto e quello successivo alla nascita del bambino. La clausola, per la donna, è di partecipare a un progetto concordato con il Centro di Aiuto alla Vita (CAV) della sua zona.
Attraverso questa delibera i 36 Centri di Aiuto alla Vita della Lombardia entrano in piena regola a far parte del sistema sociosanitario regionale (dati Bollettino ufficiale Regione Lombardia, settembre 2010, anno XL, n. 184.)
Punto fondamentale è che sono gli stessi CAV a gestire i fondi, che peraltro si sarebbero potuti destinare direttamente ai consultori pubblici per la stessa finalità.

Nel biennio 2012/2013 la Regione Lombardia ha erogato ben 10 milioni di euro per il progetto Nasko. Fondi in gran parte destinati con il "maxi emendamento" (ben 129 delibere votate con un tempo medio di 30 secondi per ognuna) allo scioglimento della giunta del Celeste.
Insomma, un vero gioco di prestigio da parte della nostra regione ciellina: i fondi per “la promozione della vita" e il sostegno della natalità sembrano esserci, mentre, guarda caso, quelli per la applicazione della legge contro la violenza sono bloccati per mancanza.

Ma torniamo al secondo punto, non meno importante, inerente la trasformazione di ruolo e quindi la riqualificazione dei consultori. Riqualificazione in che senso? La regione Lombardia con la DR n 9/937 del 1-12-2010 ha sostanzialmente parlato di un rinnovamento della “mission” dei consultori finalizzato alla " famiglia". Si parla genericamente, di prendersi carico globalmente di tutte le problematiche che attengono alla famiglia in senso lato.

Ma di quale “famiglia” si tratta? Sembra che nella mente del legislatore il modello di famiglia sia uno solo. Sorge il sospetto che non si stia mirando a un reale rinnovamento e riqualificazione dei consultori in rapporto ai cambiamenti imposti da una società in evoluzione, ormai multietnica e composita. Si ignora il fatto che non si può più parlate di famiglia, ma di famiglie, perché sono sempre più varie e diverse le forme e le modalità di “unioni solidali”. Pare proprio che non si voglia difendere la profonda natura dei consultori, storicamente legata ai valori di laicità, di salute e autodeterminazione della donna e delle persone. 

Tutto lascia intendere che il progetto sia solo a favore di una sola idea di famiglia e dei suoi bisogni, a scapito non solo dello spirito fondante di questo servizio fortemente voluto dalle donne, ma anche del lavoro di radicamento sul territorio e del lento sviluppo di questi anni,  emerso dai bisogni reali, legati ai cambiamenti dei ruoli maschili e femminili, alla necessità di cure diverse per le donne e le famiglie provenienti da altri Paesi e da altre culture… A scapito di tutto ciò per cui i consultori pubblici si erano fatti soggetti attivi e propositivi per decenni.
Ma è proprio questo che vogliamo noi donne e la società civile di cui facciamo parte?




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