"Le mani addosso". La voce interiore oltrepassa la malattia

Paola Nepi: una scrittrice, una donna eccezionale. Affetta da sclerosi multipla, paralizzata e incapace di parlare, comunica e lavora tramite un computer idoneo. Nata a Montevarchi nel 1942, cresce in una famiglia operaia e già a nove anni comincia a fare i conti con la distrofia muscolare. La forza interiore l'aiuta a vivere con passione. Ma quando la voce si spegne emerge la scrittura, la sua potente voce interiore. L'ultimo lavoro "Le mani addosso” è da lei stessa definito “composizione in forma di monologo da recitare con passione”. Un dialogo intimo, squarciato dalla luce e dal buio, ma mai dalla sconfitta. Ma anche una denuncia a un sistema che difende la vita - "l'involucro" - senza rispettare quella intima, interiore né il suo percorso, negandone la dignità e la presenza.
Presentato in due teatri toscani, riportiamo alcuni stralci del bellissimo monologo.

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le mani addosso
E stamani, non so il perché, la mia testa, più di sempre, non si ferma, va.
Oltre quelle della famiglia arrivarono anche mani parentali di ogni genere ed indole. Alcune schive, sospettose per educazione e distanza che abbassavano lo sguardo e lasciavano cadere le braccia tirandosi da parte mentre io restavo sperduta di fronte a tanto gelo, mani spergiure che neanche con le moine riuscivano a nascondere la contentezza di essere state risparmiate dal destino visto che il ceppo di sangue era lo stesso, e poi mani disposte e partecipanti per istinto, temibili come non mai, che mi si attaccavano addosso come mignatte e con solerzia mi tiravano via dagli altri, mi facevano sentire in disparte.
Mi ci volle del tempo, ma piano, piano mi feci un fiuto straordinario per scansarle tutte o quasi. Non so con quale istinto ma le riconoscevo a distanza, da come si avvicinavano, dal tocco, dal modo di tendermi le braccia. Ai primi indizi riuscivo subito a fiutarne l′anima e, forse un po′ strano, lo ammetto, ma particolare determinante fu osservare la cadenza dei passi e da come portavano culo e fianchi, parti essenziali nel linguaggio del corpo. [...]

La galleria era vasta. Da prima non notai differenze di genere, per capire il maschile dovetti aspettare di farmi ragazza.
Rare e preziose furono le mani calde che accolsero la mia diversità senza sbattermi in faccia d′esser differente, mani che non tradirono mai il mio instancabile cercare una strada per andare avanti. Erano di solito mani solide, decise, senza paure, che si accompagnavano a sottovita sicuri e di qualsiasi stazza ma portati sempre con eleganza di fronte alle cose della vita.
Abbondante, invadente la parte bassa di chi mi tastava, voleva sapere tutti i risvolti del dramma, convinto d’essere paladino d′una sofferenza cosmica. [...]

Avevano passi e culi compunti che rivelavano mani formali, poco fantasiose chi voleva sapere e poi si ritirava con un mesto scuotere di testa.
Ci furono passi rapidi che portavano culi stretti, impertinenti come le mani che mi toccavano solo per poi raccontare. Conobbi anche culi scodinzolanti, aggressivi; arrivavano con passi veloci e mani di passaggio illudendosi di risolvere tutto in una volta e poi sparire. Culi striminziti, sguinci, sempre all’erta contro il pericolo e avari anche con loro stessi nel render quel che avevan preso, culi dal suono isterico, senza godimento come chi li portava.
Temibile fu l’incontro con deretani drammatici, formosi o inesistenti all′occhio, appassionati come le mani e il cuore di cui facevano persona e sempre con in bocca la solita domanda: “perché?" a cui non sapevo rispondere. [...]

Chi sfuggivo come la peste furono tutti, uomini e donne, che si sentivano in odore di santità, che mi volevano tirare dalla loro parte. Di solito erano corredati da mani e culi repressi e vogliosi che sfuggivano al controllo di vesti monacali smascherando gli intenti.
Esemplare di tale fauna umana, restata indelebile nella mia mente, fu Suor Salvina, la monaca delle scosse, incontrata all’alba della mia adolescenza, al primo intoppo del percorso curativo quando il braccio destro non volle più volare oltre la spalla. [...]

L’uomo di scienza, padrone indiscusso della mia carne, quella volta scrutò ogni anfratto del mio corpo. Io tenevo occhi e pugni stretti, non sopportavo le sue mani: immense, svergognate che mi tastavano e, più maneggiava più sentivo quanto tutto gli fosse oscuro, alla fine si guardò intorno, poi rispose all’ansia di mia madre con due sole parole: terapia elettrica.
Fu così che incontrai la religiosa.
Piccola, informe, occhi di faina, colorito olivastro, un corvo nero rifasciato di bianco. Nell′approcciarmi mostrò fin dalla prima volta soddisfazione maligna mentre preparava gli attrezzi e mi sbirciava di sotto in su. Soffermai di striscio lo sguardo su di lei avvicinandomi al lettuccio. Io ero allora una fanciulla in fiore, nonostante le magagne, e avevo davanti un palo che sotto i cenci non celava niente, non potevo aspettarmi carezze e comprensione. Mi arpionò con le sue mani adunche e, a dorso scoperto, mi fece sedere su quel lettuccio puzzolente d’etere.
Il resto è cosa mia e non è più dolore. [...]

Sto divagando, lo sento.
Le mani degli altri sulla mia carne, anche se compiono il necessario alla e per la mia vita, distolgono, s’intrufolano nel pensiero, nella mia anima, spengono ogni mia illusione, mi riportano alla realtà, alla mia pochezza. Non posso però rifugiarmi in ghirigori di pensieri, mettere solo la carne nelle vostre mani, devo aprire gli occhi, immergermi tutta intera nel momento delle cose che accadono, devo e voglio essere qui ed ora. [...]

No, noh! Piano con le mie braccia stanche! Son braccia orfane, pochi gli abbracci che l′hanno scaldate, rari e ancora impressi sulla mia pelle come allora, voglio che restino, non cancellate il bello che mi è dato.
Ma le mie parole non han suono, sono pagine mute, il gioco va avanti.
E mentre sento e patisco l′oggi rivedo tutta la catena di mani che mi hanno sorretta, amata, offesa, avvilita, sopportata e che io stessa ho cercato, amato, sopportato, accolto, respinto. Rammento bene quei giorni lontani e vicini, ogni volto, ogni tocco addosso. Al tempo però ce la feci a liberarmi da tutte quelle pastoie, ne avevo la forza e l’arroganza dei miei giovani anni. [...]

Restai sola a legare e sciogliere stringhe e borchie, ad aprire e chiudere la gabbia, mentre crescevo e sognavo che quell’armatura sparisse.
Crescevo col desiderio prepotente di altre carezze e la paura d’essere sfiorata, fra me e il mondo c’era l’ingombro del fatto.
Come i gatti, rasentavo i muri, scansavo chi mi voleva prendere per mano, scappavo dalle prime intermittenze del cuore.
Quale lampada avrebbe mai illuminato i miei passi traballanti?
Chi avrebbe rischiarato la mia strada se tutti avevan da ridire?
Crescevo e sognavo, non speravo. Inconsapevole sentivo che la bestia che mi aveva azzannata non mi avrebbe più mollata. La speranza di un miracolo la lasciavo a mia madre, sperare per me sarebbe stato solo un vizio, ma sognare me lo potevo permettere, sognare e continuare a stare nei miei panni.
Tutti quegli anni passarono fra il desiderio, il sogno e la paura, dietro lo schermo di una baldanzosa aggressività.
“Tu resterai con noi” aveva detto lei, mia madre, tirandomi via da ogni fantasia d’amore, di domani…
Ma io, dove ero?
Perché tutte quelle parole alle mie spalle, senza mai leggere i miei occhi?
Ero fra le sue mani e le sue parole, parole che cercavano sempre di riacchiapparmi e che, fra amore e timore, mi alzavano steccati. [...]

La prima volta che qualcuno mi allacciò alla vita in un giro di ballo, da quelle braccia che mi facevano cintura non mi sarei mai staccata. Nella penombra della sala, la musica intorno, le mani che si intrecciavano alle mie, le braccia che mi guidavano fra le note non mi erano addosso, non spengevano sogni, erano invece mani e braccia che mi rimettevano al mondo.
Tutto poi spariva all’ultimo refrain, quando la musica si fermava e si riaccendevano le luci.
Ogni domenica il bruno cantante dell’orchestra che si esibiva nella balera cittadina cantava solo per me “Dans mon ile”, la dolce canzone di Henry Salvador poi, mentre mi perdevo nell’ultimo slow fra le sue braccia, con fare galante mi chiedeva il perché della mia eleganza, della mia posa aristocratica, del mio incedere lento, distaccato da tutto ciò che era intorno.
 “Strano il tuo passo, sembri galleggiare sempre fra bolle di champagne”, diceva.
“Stecche, stringhe e disciplina” usavo dire, “le monache Orsoline non fanno sconti! Sono state loro che mi hanno educata”.
Non so se ci credesse ma ne ridevamo insieme e poi tornava a cantare per me le canzoni che adoravo: My funny Valentine e la splendida Les feuilles mortes con la sua carica di nostalgia del domani.
La stagione del ballo, per me, durò poco più di una estate, finché il rock, col suo ritmo travolgente, non cancellò i lenti che si ballavano allacciati come “io tronco e tu edera”.
D’un tratto il ritmo della modernità sembrò voler separare i corpi perché non si parlassero d’amore ma si urlassero il proprio erotismo, non riuscissero più a sussurrarsi attrazione, desideri, sensualità. Cominciò proprio allora l’uso di mettere subito tutto in piazza.
Così fui all’istante tagliata fuori da quel discorso amoroso.
Che potevo mai dire io, con la mia lentezza, in un mondo che accelerava i giri? Il mondo, la vita, aumentavano i giri, io, come una bambola di pezza, perdevo segatura e mi facevo sempre più lenta. All′antico detto: né moglie, né madre, né massaia, mi si appiccicò addosso anche l′infamia che mai più nessuno ha potuto scancellare, il marchio “A Carico".
Vi meraviglia ancora il mio sorriso? Che altro fare di fronte l′imbecillità umana?
Ci ragiono e rido, chi come me ha la vita completamente nelle mani degli altri piange dentro, fuori offre un sorriso. [...]

Mi guardate, mi chiamate bella, signora! Bella, un tempo, quando non lo sapevo. Signora? No, nessun talamo mi ha mai accolta, no, non sono niente e sono tutto! Questa è la mia libertà! Non ho terra perché non ho passi, ho un tetto ma non ho casa, non ne conosco tutte le stanze, son ceppo... Si! Ma ceppo sterile son dovuta vivere, pietra! Ho un frutto prezioso però, unico e prezioso: la libertà d′esser quel che sono e di sentirmi radiosa come questa luce del mattino….

Da: Le mani addosso, di Paola Nepi (Meridiana, 2012; introduzione di Adriano Sofri)

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