Io capitano

Originale storia di emigrazione che non fa sconti alla tragedia che colpisce il Mediterraneo e il mondo intero. ()
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Quella che va raccontando Matteo Garrone non è la consueta cronaca di una migrazione come quelle gravi riportate quotidianamente sui giornali perché ci dice che non si lascia il proprio paese solo per disperazione, per lasciarsi alle spalle guerre e carestie. Si può voler affrontare un viaggio anche solo per conoscere il mondo o per cercare fortuna e inseguire un sogno. Come hanno sempre fatto i giovani di tutti i paesi, come abbiamo fatto noi per conoscere il mito americano o il fascino dell’oriente.

Il viaggio, quel viaggio, è quello che affrontano Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) due cugini senegalesi che vivono a Dakar, in famiglie affettuose, modeste ma senza particolari problemi economici. Vanno a scuola, hanno amici, scrivono canzoni, la loro vita non è triste e degradata. Ma dall’alto dei loro 16 anni vogliono andare a vedere dal vivo quello che la globalizzazione già gli ha mostrato sui telefonini. Perché internet esiste anche in Senegal. Il miraggio di diventare star della musica li convince a fare piccoli lavoretti di nascosto dalle famiglie per racimolare i soldi del viaggio: “Sarai tu a firmare gli autografi ai bianchi!” dice Moussa al cugino. Nonostante la disapprovazione della madre, i racconti di chi sa come vanno le cose e l’orrore l’ha già conosciuto, partono.

Vogliono arrivare in Europa in cerca di successo e, perché no, aiutare le famiglie rimaste in Senegal. L’entusiasmo dell’incoscienza dovrà vedersela con truffatori, estorsioni, violenza, torture passando per il Mali, il Niger, il deserto infinito, le carceri libiche e i ricatti, esaurendo presto le loro finanze. Seydou sarà costretto a tramutarsi in scafista senza nemmeno aver mai visto il mare e senza saper nuotare.
Garrone, che ha scritto la sceneggiatura con Massimo Gaudioso e Massimo Ceccherini, ha provato a ribaltare un aspetto della migrazione cercando di mostrarla non dal nostro punto di vista ma da quello di chi parte, facendosi messaggero dei loro racconti “Il film l’abbiamo fatto insieme, io ho messo a disposizione il mio lavoro.”

Ci sono nel film tutti gli aspetti tragici che conosciamo dalle cronache, ma sono quasi solo accennati, non c’è truculenza insistita e sottolineata pesantemente. Intendiamoci, le immagini sono anche molto dure ma Garrone talvolta le traduce poeticamente, come quelle della donna che muore nel deserto. In questo molti hanno intravisto un metaforico Pinocchio (l’ultimo film del regista del 2019) che deve imparare a difendersi e cavarsela da solo, per lasciare la fanciullezza e farsi uomo. Avvicinarlo alla favola dei nostri giorni è eccessivo, “romanzo di formazione” è un termine più consono. Giustamente è stato girato interamente in lingua wolof quindi sottotitolato. I due protagonisti prima del film non avevano mai lasciato il Senegal e mai hanno desiderato lasciare il loro paese.

Seydou Sarr ha appena vinto il Premio Mastroianni per un giovane attore emergente alla Mostra del Cinema di Venezia ma è curioso e triste che la giuria non abbia ritenuto di assegnarlo ex-aequo con Moustpha Fall.
Matteo Garrone ha vinto il Leone d’Argento per la migliore regia e nel suo ringraziamento ha voluto ricordare il Marocco, duramente colpito dal terremoto, dove in parte è stato girato il film.
Ma ha dedicato “questo Premio a tutte le persone che non sono riuscite ad arrivare in Italia.

Quando ci stanno la voglia e la necessità di partire, nessuno ti può fermare: dobbiamo avere diritti e visto per viaggiare. Solo così si può stroncare il traffico di esseri umani”. E’ incomprensibile che se dei giovani europei volessero andare in Senegal non dovrebbero fare altro che prendere un aereo senza rischiare la vita, ma il contrario non è contemplato.

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