Qui rido io

Mario Martone racconta vite e miracoli di Eduardo Scarpetta in un sottile confine tra finzione e realtà che solo il teatro può legittimare. ()
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Il titolo richiama la scritta scolpita a lettere cubitali sul pretenzioso palazzotto vista mare in cui Eduardo Scarpetta aveva ostentatamente fissato la sua fin troppo sontuosa dimora ai piedi del Vomero.
In questo vistoso scenario l’autore, capo comico e attore che spopolò nel teatro napoletano tra la fine dell’ ‘800 e l’inizio del ‘900 conduce la sua vita esagerata di patriarca di una famiglia allargata assai: nove figli da donne diverse che, alla corte del sultano, si erano persino adeguate a convivere senza particolari acrimonie o conflitti.
Tra i figli illegittimi ospitati spiccano, per ciò che faranno poi, i tre fratelli De Filippo: Eduardo, come il padre che chiamava zio, Peppino e Titina.

Ad alcuni scampoli della vita di questo fin troppo esuberante uomo di teatro è dedicato il film di Mario Martone, in concorso all’ultimo Festival di Venezia, corroborato dall’interpretazione a tratti sopra le righe di un Toni Servillo che non deve certo dimostrare quanto sia bravo a ricostruire le vite degli altri.
Il racconto mescola vita e teatro, teatro e vita in un intreccio in cui la finzione recitativa sembra avere la meglio sulle quotidiane vicende di vita veramente vissuta, in un indissolubile connubio di miseria e nobiltà. Scarpetta recita sempre, ogni suo atto vuole giustificare il ruolo di mattatore che riempie i teatri e riscuote applausi, anche nelle più scontate manifestazioni di quotidianità come servire un sartù di riso o giocare a carte.

La sua fama però si incrina quando, per eccessiva fiducia in se stesso, pensa di parodiare una mediocre tragedia del Vate D’Annunzio che, per bramosie varie, lo trascina in tribunale per rivendicare la superiorità della sua opera contro il presunto plagio dell’istrione napoletano.
La critica si divide: c’è chi difende le ragioni di D’Annunzio (Salvatore Di Giacomo) e chi prende le parti di Scarpetta (Benedetto Croce), ben inteso nel nome solenne dell’arte.
Come vada a finire la disputa non è rilevante. Resterà nella memoria dello spettatore la sontuosità della messinscena in una Napoli meticolosamente ricostruita in cui i personaggi si muovono come se fossero sempre e comunque sulla scena. Servillo è sin troppo nella parte e si concede forse qualche eccesso, intorno a lui si intona un coro ricco di colori e sfumature, con una ammiccante colonna sonora che non risparmia nessuna delle più famose arie napoletane.

Un corposo e ambizioso racconto lungo 133 minuti che, ci auguriamo, possa servire a riportare pubblico al cinema in questi tormentati tempi.


In programmazione al cinema Plinius e all’Arcobaleno Film Center.

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