Aroldo Bonzagni, pittore futurista

Un articolo scritto nell’anniversario della morte di un artista che visse nella nostra zona e morì il 30 dicembre 1918, ucciso dalla pandemia di allora. ()
Targa Bonzagni
Dopo il terribile secondo picco, nell’autunno del 1918, l’influenza Spagnola aveva allentato un po’ la presa su Milano. Si moriva meno e questo aveva autorizzato un incauto ottimismo. Le feste di fine anno incombevano, osti e proprietari di cinematografi premevano perché le misure restrittive fossero allentate, in modo da consentire ai milanesi di festeggiare la fine di un anno che aveva visto terminare anche la prima guerra mondiale.
Ma già il 30 dicembre lo Stato civile di Milano contava 107 morti accertati di Spagnola. Fra di loro un giovane artista di grandi speranze: Aroldo Bonzagni. Il giorno prima l’amico pittore Leonardo Dudreville era andato a trovarlo, allarmato dalla chiamata di Archimede Bresciani, che con Bonzagni condivideva lo studio: “Bonzagni muore!… Han parlato di polmonite, di pleurite, di ‘Spagnola’… Han provato di tutto, ma quello se ne va… se ne va… se ne va!”. Bonzagni era a letto, ma il viso sorridente era “tremendamente scarno e terreo”, la mano “già abbandonata alla vita”, scriverà Dudreville.

In questa seconda pandemia qualche giornale ha ricordato i pittori morti di Spagnola un secolo fa: Gustav Klimt e l’allievo Egon Schiele, ma hanno dimenticato di citare Aroldo Bonzagni, milanese di Cento, che abitava in via Eustachi 38, dove una targa ricorda la sua breve vita. A causa di una malformazione al ginocchio non ebbe la “possibilità di eroismo” in battaglia, come tanti suoi amici futuristi. Morì a soli 31 anni di un virus che fece più morti della guerra, destando un grande e sincero cordoglio nell’ambiente artistico milanese.
Bonzagni era approdato a Milano da Cento, in provincia di Ferrara, nel 1903 per frequentare l’Accademia di Brera. Era un sedicenne precoce e pieno di talento, tanto da permettersi spacconate, come quando copiò la Venere de’ Medici partendo dai piedi. A Brera bruciò le tappe: fu allievo di Cesare Tallone, un pittore che rappresentava la modernità, e compagno di studi di Carrà, Funi, Bucci, Dudreville.
Nel 1910 fu fra i sottoscrittori del primo Manifesto dei Pittori futuristi (insieme con Boccioni, Carrà, Russolo e Romani). Ma già un anno dopo se ne distaccò, pur rimanendo in rapporti di amicizia con loro. Era un dandy, amava gli abiti ben tagliati dalle tinte chiare che gli confezionavano i sarti, cui lui forniva in cambio figurini a tempera. Ma non fu per timore di sgualcire i suoi abiti che smise di frequentare le serate futuriste, con l’immancabile finale a suon di botte e lanci di ortaggi. Coi futuristi condivideva la voglia di innovazione e un certo fare guascone, ma più che alla scomposizione della forma, lui guardava alle figure e al colore della Secessione di Vienna e Monaco, a Klimt e allo Jugendstil.

Fu pittore della Belle Époque, ritraeva una società festante che frequentava il Teatro alla Scala, i balli in maschera e l’ippodromo di San Siro, ma anche le folle che alla domenica andavano a passeggiare ai Giardini Pubblici e che s’imbarcavano sul tram a due piani in partenza dai Bastioni per arrivare a Monza.
Nei nove anni in cui durò la sua parabola artistica lavorò instancabilmente. Vastissima la sua produzione grafica. Dall’illustre concittadino centese, Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, aveva preso il gusto per il ritratto caricaturale. Collaborò con numerose pubblicazioni, anche satiriche; costante il suo contributo alla rivista del Touring Club Italiano. I suoi Cartelloni esposti nelle vetrine di due negozi di via Dante avevano fatto impazzire il questore, costretto ogni volta a coprirli con colla e giornali. Si trattava di grandi caricature satiriche sulla guerra italo-turca del 1911-12 dall’umorismo ficcante e i colori vivaci, che lo avevano reso molto popolare ai milanesi. Il contributo alla Grande Guerra lo diede come illustratore (manifesti e cartoline di propaganda bellica, album satirici contro il nemico, giornali di trincea per intrattenere i combattenti).
Dovendo provvedere alla madre e ai tre fratelli minori, partì per Buenos Aires in cerca di fortuna, ma dopo un anno rientrò a Milano per aprire uno studio in via Stradivari nel 1916. Qui la sua pittura ha una svolta. Il segno si fa più duro ed essenziale, la composizione semplificata. Il tema sociale diventa preminente. Lui ora guarda agli ultimi, ai mendicanti e ai suonatori di strada: “rifiuti della società” (come intitola un suo dipinto) ritratti nella loro rassegnata dignità.
Non si può dire come si sarebbe evoluta la sua pittura. L’ultimo giorno dell’anno 1918, sfidando la neve e una pioggia gelata, una folla di amici e artisti eterogenei, fra i quali c’era anche Arturo Toscanini, partecipò commossa al suo funerale nella chiesa di Santa Francesca Romana e accompagnò il feretro fino al Cimitero Monumentale, dove, l’anno successivo, l’amico scultore Adolfo Wildt gli dedicò un monumento funebre che sintetizza mirabilmente la sua poetica: ironia, satira e dolore.

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